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giovedì 28 febbraio 2013

Oltre la linea dell'Orizzonte.


Oltre la linea dell'Orizzonte di Mario Merlino

La fotografia mostra il volto di profilo, con i capelli mossi e le guance con la barba rada. Alle stazioni della metropolitana volantini attaccati alle pareti, sulle colonne ad ogni angolo. Uno dei tanti che la famiglia ricerca, spesso senza esito. I passanti osservano, no, danno al massimo una frettolosa occhiata, forse un po’ morbosa, forse non riuscendo neppure a vedere a leggere. Tutti con il cellulare in mano gli occhi impastati di sonno nervosi irritati soprattutto con questa maledetta fretta, inutile, stupida, indotta. Dopo la Riforma luterana, dopo il Calvinismo, sui campanili delle chiese l’orologio a battere anche il quarto d’ora. Lo sguardo ieratico del cambiavalute con sua moglie nel quadro del pittore fiammingo Quentin Metsys. Dominati dalle nuove divinità del tempo che scorre e dove ogni minuto deve essere impiegato nel cerchio osceno del lavorare produrre consumare lavorare o, come poetava Ezra Pound nel Canto XLV, Contro l’Usura, ‘per vendere vendere/ presto e con profitto’.
Dove c… andate? Uomini grigi uomini di paglia uomini formicaio… ed io fra loro, anch’io, peso morto della società, pensionato, trascinato dal vortice, in questa bolgia dantesca ove tutti siamo carnefici e, al contempo, vittime di noi stessi… Eppure, lo confesso, dopo due giorni in campagna – la montagna, la baita di Emilia, il sudore lungo la schiena, il sentiero e la radura sono altra cosa e ne sento forte la mancanza – mi prende la nevrosi del marciapiede delle vetrine degli autobus della gente del semaforo e dei guidatori che ti bombardano con il clacson, mentre bloccati dal traffico gli uomini si mettono le dita nel naso e le donne si rifanno il trucco…
Pino Caruso, a metà degli anni ’60, nello scantinato, divenuto cabaret, canta del legionario di Lucera, quello ‘morto nel Katanga... a quarant’anni e la fedina nera’ (che molti di noi avevano trasformato in‘camicia nera’). Il Bagaglino dove trascorrevamo le serate in compagnia di Mario Castellacci, Leo Valeriano e, a mezzanotte, con un piatto fumante e piccante di penne all’arrabbiata.

Ne ho scritto in Atmosfere in nero. E ancora: ‘se rimanevo a casa/ là nella mia Lucera/ ora sarei arrivato/ coi figli e la pancera./ Avrei la moglie grassa,/ le rate e la 600,/ mutua, televisore, / salotto e doppio mento’. Beh, allora, avevamo vent’anni e ci si perdonerà se ci innamoravamo degli spazi lontani, di pretese d’andar oltre la linea dell’orizzonte dove volgere il passo e il nostro ‘cuore avventuroso’. Poi, poi…magari senza la moglie grassa, guardando poco la televisione e avendo abbandonato la macchina alla definitiva rottamazione…

C’è chi, però, ha preferito trasformare quello spazio e quell’orizzonte in realtà di vita vissuta. Penso a Girolamo. Ci eravamo iscritti alla Giovane Italia lo stesso giorno, lui io e Roberto, il 15 ottobre del 1960, salendo le scale di Palazzo del Drago, a Roma. Senza chiasso, roboanti proclami, se n’era partito, pochi anni dopo, per il Belgio e da lì, arruolatosi come mercenario, in Congo a Leopoldville e Bukavu. Quando rientrava in Italia, sempre più taciturno, spendeva in modo spensierato ed elegante la paga, e con le esperienze accumulate e un rollino di fotografie che sarebbero diventate un bel libro, Il bottino del mercenario. Edito nel 1987, a vent’anni quasi dalla scelta di andarsene in Africa e poco prima di andarsene e per sempre.‘…Una foresta africana, una pozza d’acqua salmastra per dissetarci, una logora divisa kaki che rappresenti qualcosa di nostro’ contro questo mondo ove s’affoga nella quotidianità e dove s’annaspa per sopravvivere salvo essere‘fermamente determinati nel lasciare, quanto prima, questo pianeta da cui ci sentiamo del tutto estranei’. Sembrano echi salgariani, ma Girolamo ha scritto l’ultima pagina non più con l’inchiostro. Memore della massima di Nietzsche:‘Scrivi con il tuo sangue e scoprirai che il sangue è spirito’. Ci incontrammo l’ultima volta in Calabria, dove trascorrevo le vacanze. Poi era ritornato in Argentina, già determinato di non lasciarsi divorare dal male che gli fioriva dentro. Avendo giocato sovente con la morte, non era disponibile a mostrare le carte con la vita, sapendo che in fondo si bara sempre. E così, invece di attenderla, l’è andato incontro ‘ad occhi aperti’.

Nelle stazioni della metropolitana, alle pareti, sulle colonne, ad ogni angolo altri volti, messaggi di richiesta informazioni, succinte descrizioni, numeri di cellulare. Ognuno con la propria storia, il gravoso carico di paure dolori ansie, e tutti che passano nella totale indifferenza preda del nervosismo delle beghe sul posto di lavoro e dalla tanta noia, spesso inconsapevole, che ci uccide nell’aurea prigione borghese. Eppure, in quel volto di giovane dal profilo con i capelli mossi e la barba rada, un’altra storia, un altro esito…Se n’è andato, lo riportava la radio, apparentemente senza motivo, lui studente brillante e non so più che altro ‘di bello e di buono’, per arruolarsi nella legione straniera. Fuori tempo massimo. Niente Indocina Algeria e i romanzi di Jean Lartéguy. Dal viaggio dell’ Ulisse omerico, insensibile al richiamo delle sirene, per tornare alla pietrosa Itaca e alla fedele Penelope; dal desiderio di‘seguir virtute e canoscenza’ in quello del Dante, peregrino all’Inferno, al girovagare per le vie di Dublino dell’Ulysses di Joyce, inutile e anonimo essere qualunque, espressione dell’uomo europeo in cammino per una china scivolosa e melmosa. Gravato dal senso di colpa d’aver voluto edificare, per secoli e in più riprese, un Impero… ed ora avvinto e avvolto nel sogno americano.

Così, lo confesso, quel ragazzo dai capelli mossi e dalle guance ricoperte da rada barba non riesce a suscitare in me sconforto pietà ansia, semmai invidia e speranza. Invidia perché non ho scelto come lui di mettere in gioco i miei vent’anni; speranza perché vuol dire, sia gloria a tutti gli dei ai folli ai ribelli!, che c’è ancora un seme che cresce tra le aride zolle e la nuda pietraia…

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