di Mario M. Merlino
Il 23 agosto 1914 muore in battaglia, a Charleroi, André Jéramec, l’amico più caro di Drieu La Rochelle, caporale all’inizio della Grande Guerra. Un amico così a lui caro che ne sposerà la sorella, Colette, di ricca famiglia ebrea. Venti anni dopo pubblicherà una raccolta di novelle dall’indicativo titolo La Commedia di Charleroi. E il libro è ben più che una sorta di debito da pagare alla memoria dell’amico scomparso e non è soltanto la capacità di mettersi a nudo tra esaltazione eroica e istinto di sopravvivenza espresso con la fuga. È un libro di guerra e sulla guerra, la disanima di un evento eterno – la guerra quale misura delle forze umane messe in gioco – e nuovo al contempo, l’irrompere, ‘di ferro e di gas’, della modernità.
E la “festa crudele”, per usare la felice espressione di Franco Cardini, si rende in commedia, dove l’orrore e la morte si stendono con il loro manto tragico sul senso degenerato del conflitto ove, di fatto, non vi è esito di vincitori e di vinti. «La guerra moderna è una malefica rivolta della materia asservita dall’uomo’ perché in essa il ferro ha sostituito i muscoli, la tecnica l’arte e, al posto di capi, generali… Insomma ‘questa guerra fatta da tutti salvo da quelli che la facevano un tempo’».
Drieu, potremmo dire, si colloca tra coloro che della guerra hanno colto la distruzione e l’orrore (scrive, ad esempio, Giuseppe Ungaretti “Di tanti – che mi corrispondevano – non è rimasto – neppure tanto – ma nel cuore –nessuna croce manca – è il mio cuore - il paese più straziato”) e da essa si ritraggono folli e disperati. In precedente articolo sul medesimo argomento ho citato Barbusse e Remarque. E non se ne vergogna. E non può essere diversamente perché senza la presenza della morte “la vita sarebbe un frutto molliccio e troppo maturo”. Semmai, ci si può chiedere, in che modo coabitare con questa presenza. Drieu vi dialogherà e ne scriverà, tramite la tentazione del suicidio, per tutta la vita – leggasi Racconto Segreto - fino a quel 15 marzo del ’45 quando la sfida si trasformerà in atto. Sempre dalla Commedia di Charleroi: «Fuggivo allegramente, fra lo scoppiettio delle pallottole».
Se ci volgiamo a queste pagine, potremmo formulare il medesimo giudizio espresso da Philippe Burrin, ne La deriva fascista, ove si spinge a definirlo sostanzialmente un intellettuale pacifista. E Drieu potrebbe coabitare, pur con tratti tutti suoi, con gli Ezra Pound i Louis-Ferdinand Céline i Robert Brasillach, che disdegnano ogni forma di conflitto in quanto negazione e sfruttamento della vita – e s’è scritto. Già, e abbiamo aggiunto come la convinzione della necessità di mantenere il punto sui valori che spingono l’uomo verso la grandezza di sé, fra cui va collocato il sano istinto verso la lotta, quel ‘barbaro dall’alto’ come insegnava il padre di Zarathustra, che, contrapposto a Marx, gli è figura di forte fascino e di costante riferimento, non equivale ad esaltare la guerra tout-court (e qui riportiamo dal Discorso ai Triestini, 1909, di Filippo Tommaso Marinetti come essa sia «…nobile bagno di eroismo, senza il quale le razze si addormentano nell’egoismo accidioso, nell’arrivismo economico, nella taccagneria della mente e della volontà»).
Eppure Drieu La Rochelle si spinge oltre, va verso quello spazio ove trova, pur nella diversità della fredda analisi da futuro entomologo e, soprattutto, fautore del dominio delle forme espresse dalla Grande Guerra (si ricerchi l’esile saggio su La Mobilitazione totale), lo scrittore Ernst Jünger. Come la terra di nessuno che divide e, al contempo, unisce i soldati delle opposte trincee. Ho scritto ‘trova’ e non ‘riconosce’, si badi bene… perché non v’è affinità fra i due se non nel riconoscimento di aver combattuto quella che, proprio lo Jünger, definisce ‘guerra di materiali’ – l’irrompere, cioè, della tecnica e delle masse a cui il Novecento dovrà dare risposta e lo farà anche tramite il totalitarismo. Termine oggi aborrito e schiacciato ma che, allora, indicava il compito prioritario di risolvere i problemi della realtà nel loro organico e complesso manifestarsi e non esaurendosi come affermava – falsamente – il liberalismo di fronte alla sfera privata dei diritti (ipocrisia) e dei bisogni (irrisolti). Fascismo e comunismo…
A Charleroi egli scopre come la guerra non corrisponda ai sogni della sua infanzia (e chi, fra i miei lettori, è cresciuto sognando ad occhi aperti nel mondo di Emilio Salgari, sa cosa ciò vuol dire), la differenza tra il sentirsi travestito da “un capo, un uomo libero che comanda e rischia la vita solo in una grande azione” e il grigio la noia la stupidità della caserma – “caserma, se ti ritroveremo al fondo della nostra strada, distruggeremo la tua facciata e sradicheremo le tue fondamenta”. E, a maggior ragione il crepitare feroce e anonimo della mitragliatrice, delle bombe assassine incapaci di guardare negli occhi coloro di cui straziano il corpo (Drieu ha conosciuto l’immane carnaio che fu la battaglia di Verdun, dove ancor più l’uomo gli apparve un essere inutile a confronto del dispiegarsi dell’industria bellica…). Come scrive Pol Vandromme, in un utile saggio edito nel 1965: «Drieu aveva una visione aristocratica della guerra, ma il servizio militare obbligatorio l’istinto da gregario il mondo industriale la democrazia hanno ucciso tutto quanto si volgeva all’eroismo, rendendola una mischia senza gloria, invece di essere una lotta leale come un duello». Ecco perché egli guarda con ammirazione il soldato che si batte sulle trincee, quell’aviatore, che ingaggia scontro mortale volteggiando nel cielo, quell’essere l’uno contro l’altro e ‘la morte a paro a paro’. Figure quali il Richthofen, il leggendario Barone Rosso, o Francesco Baracca, nel suo immaginario, sono i legittimi e soli emuli del cavaliere medievale.
C’è uno spazio geografico e ideale, fra le due guerre, che gli dà – e non solo a lui: si pensi a Robert Brasillach e, sul versante opposto, a Bernanos o ad André Malraux, che fu fra l’altro intimo di Drieu - il senso di un rinnovato spirito guerriero: la guerra civile spagnola. Scrive Robert Brasillach: «la Spagna doveva trasformare in vera e propria lotta materiale, in un’autentica crociata, l’opposizione che da secoli covava contro il mondo moderno. L’opposizione allo spirito borghese e al marxismo». E, in terra di Spagna, va a dare senso alla propria esistenza combattere e morire Gilles, il protagonista dell’omonimo romanzo, il più compiuto e altrettanto autobiografico («Dunque sarò sempre eresiarca. Gli dei che muoiono e che rinascono: Dioniso, Cristo. Niente si fa senza sangue. Bisogna morire incessantemente per rinascere incessantemente. Il Cristo delle cattedrali, il grande dio bianco e virile. Un re, figlio di re. Trovò un fucile, andò a una feritoia e si mise a sparare, mirando»). Al cavaliere tutto di ferro vestito, a cui bastava il cavallo la spada e l’onore, qui vi è il ‘partigiano’(secondo la definizione di Carl Schmitt, ovviamente, che ‘l’altro’ conosce solo il colpo alla schiena e la ferocia comoda e vile del branco), cioè colui che ha scelto di porsi al servizio di una idea e per essa donare tutto se stesso.
Essa, la guerra, ti marca stretta ti penetra dentro non te ne liberi facilmente – come la tigre che s’annida in ciascuno di noi, a balzare all’improvviso e sbranare e sbranarci (Nietzsche docet prima delle smanie e delle manie del dottor Freud) o del ‘fanciullino’ eterno che è in noi. Ne La suite dans les idées rivela e lo riporta nel saggio l’amico suo Pierre Andreu: «Guerra, specie di solitudine, mi ha ossessionato, mi tieni ancora. Ecco il tuo assalto supremo. Devo abbandonarmi a te, anima e corpo. Tu hai scatenato in me un amore incurabile; non potrò più vivere fuori di te. Mi hai colmato di un amore strano. Sono un ragazzo affascinato e sperduto. Riuscirò a risvegliarmi da questo sogno mistico?».
No, Drieu non si ridesterà mai, anche se non indosserà più alcuna divisa di panno spesso. Egli combatte l’oscena modernità della guerra, ma è troppo profondo amaro inquieto sincero con se stesso tentato dall’Assoluto, una sorta di ‘cavaliere dell’ideale’ come avrebbe potuto riconoscerlo il filosofo Hegel, da rinnegare il guerriero che è in lui (gli ultimi studi letture sono di stampo orientale, la copia delle Upanishad aperta sulla scrivania il giorno del suo suicidio, comprendono di certo la Bhagavad Gita). Darsi la morte per non essere sporcato da mani indegne non rappresenta lo sfuggire alla paura, alle proprie responsabilità, ma sottrarsi – idealmente arma in pugno (poco più di un mese dopo un altro ‘Capo’, sotto il ritratto del re Federico Secondo di Prussia, sceglierà il medesimo rito purificatore nel bunker di Berlino) – alla volgarità del presente, alla macelleria posta in essere dalla plebe sempre in cerca di sangue a cui abbeverarsi…
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