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martedì 24 aprile 2012

Analisi politica: "società, democrazie e welfare"

Società, Democrazia e Welfare ABSTRACT
Gli ultimi 30 anni hanno visto un metodico smantellamento delle conquiste sociali postbelliche. Dalla crisi del '29 si uscì con più democrazia mentre oggi prevale un mercatismo autoreferenziale. La ragione? I ceti medi non fanno le rivoluzioni; e le élites, purtroppo, lo sanno. Dagli anni '80 in poi i mercati dei capitali e quelli finanziari in generale si sono sviluppati ovunque a un ritmo senza precedenti nella storia economica, legando il mondo in una ragnatela di scambi finanziari che, grazie alle tecnologie esistenti, vengono svolti nell'arco delle 24 ore in tempo reale. Con questi presupposti, una nuova parola d'ordine si è diffusa fra gli operatori economici e i manager d'impresa: creare valore per gli azionisti. Dal raggiungimento di tale obiettivo dipendono ormai le decisioni d'investimento e l'operato di tutte le strutture che producono beni e servizi. Le fluttuazioni delle Borse, infatti, sono oggetto dell'attenzione universale e l'andamento degli indici genera preoccupazione nelle classi dirigenti dei vari paesi in quanto gli ultimi 30 anni hanno visto succedersi molteplici crisi caratterizzate da scandali finanziari: i junk bonds (titoli spazzatura) e il fallimento delle casse di risparmio statunitensi; Enron e altri casi di manipolazione contabile; la crisi della finanza derivata (e gli scandali ad essa imputabili) emersi dal 2008 in poi. La crescita del settore finanziario ha avuto 3 principali caratteristiche: • è stata molto più rapida di quella dell'economia reale, penetrando in tutti i comparti della vita economica; • è aumentata la sua complessità, con l'esplosione dei derivati e la costruzione di prodotti strutturati che hanno reso la finanza un settore esoterico; • ha visto l'elaborazione, da parte di molti economisti, di una teoria che postula l'esistenza di mercati finanziari efficienti, giustificando la crescita continua dell'attività finanziaria con l'affermazione che essa avrebbe aumentato la crescita rendendo l'economia mondiale meno rischiosa. La crisi dell'autunno 2008, così, ha dimostrato il carattere assolutamente a-scientifìco e l'inutilità di queste teorie, che sono valse il Nobel ad alcuni dei loro fautori. L'aumento del peso della Finanza, infatti, ha consentito ai settori e ai ceti sociali operanti in tale ambito solo d'imporre alla collettività il proprio interesse particolare, che spesso (per non dire quasi sempre) vive di operazioni speculative economicamente destabilizzanti, e fa pagare le conseguenze del proprio operato al lavoro dipendente e alla classe media in termini di reddito, occupazione, contrazione (per non dire minimizzazione) del welfare e delle prospettive di aumento del tenore o della qualità di vita. L'egemonia culturale della sfera finanziaria è molto forte; eppure ha quasi dell'incredibile, dal momento che si è consolidata malgrado la crisi borsistica dell'87, lo scandalo del Long Term Capital Investment, lo scoppio della bolla informatica (i titoli dotcom) e la crisi dei mutui subprime. L'ironia della situazione attuale, comunque, è che il settore finanziario, composto dalle Società di rating, dalle Banche d'affari e dai grandi istituti, continua a dettare la linea delle misure anticrisi malgrado il ruolo decisivo svolto nel determinare la crisi stessa! Una conseguenza assai preoccupante del dominio della Finanza, tuttavia (al di là del fatto puramente economico e materiale) è il continuo svuotamento delle istituzioni democratiche, particolarmente visibile nei paesi mediterranei e periferici dell'Unione Europea, dove gli squilibri causati dalla crisi del 2008 sono più forti. Per le sue caratteristiche costitutive e per mantenere una posizione d'egemonia, infatti, la Finanza ha bisogno che la politica economica sia attuata in tempi brevi: dalle richieste dei mercati finanziari (espresse con variazioni degli indici di Borsa) ai provvedimenti dei singoli governi, deve passare pochissimo tempo. Il tempo della Finanza è il tempo di Internet mentre i tempi della produzione e della vita reale sono molto più lunghi... L'Europa è il luogo dei punti dove lo svuotamento delle istituzioni democratiche è più evidente: la Banca centrale europea (BCE) e la Commissione, istituzioni non legittimate dalla sovranità popolare, determinano con i loro provvedimenti il quadro reale e concettuale in cui l'aggiustamento deve avvenire: i Parlamenti nazionali, così, possono solo ratificare tali misure (di norma assolutamente impopolari) perché sconvolgono gli equilibri economici e sociali dei paesi che devono applicarle. Volendo citare un momento chiave illuminante (ormai passato alla Storia) è dalla primavera del 2010 che la crisi del debito greco ha reso chiara la fragilità della costruzione europea, svelando i rapporti di forza tra Finanza e governi nazionali, senza che alcuno, da Bruxelles, intervenisse a chiarire realmente la situazione e le sue cause. Esiste una gradazione, chiaramente, nello svuotamento delle istituzioni democratiche, ma il maggior esproprio lo si è osservato nei paesi dove le forze politiche sono di fatto commissariate da una sorta di bonapartismo tecnocratico autoincoronato: Grecia, Italia, Spagna. La sostanza, oggi colta molto più chiaramente, è l'avvenuta istituzione di un filo diretto tra i mercati finanziari e i governi (con questi ultimi in posizione di subordinazione), passando per la BCE e la Commissione. I provvedimenti presi dai Parlamenti, così, vengono vagliati dai mercati che possono promuoverli o bocciarli senza interferenze dove la possibilità di mediazione dei singoli esecutivi è praticamente nulla di fronte a un crollo di Borsa, un aumento dello spread o un innalzamento del saggio d'interesse. Gli attori di questa commedia (ben noti) sono persone che per lavoro hanno avuto a che fare con il settore finanziario, del quale pertanto conoscono bene il modo di operare, gli interessi, la forza e la pericolosità. Draghi, Monti e e il premier greco Papademos, infatti, non sono degli sconosciuti agli occhi delle grandi banche d'investimento, con cui hanno avuto molteplici rapporti professionali. Parlando dei governi dei paesi capitalistici, Marx diceva che erano il consiglio d'amministrazione della borghesia e che quindi la sfera politica era distinta da quella economica, e tuttavia non avrebbe mai immaginato che la sfera politica sarebbe sparita e che gli interessi economico-fìnanziari avrebbero espresso direttamente i loro rappresentanti al governo dei singoli paesi. Ci si può chiedere come mai l'establishment economico pensi di poter fare a meno della mediazione politica visto che neppure nell'Inghilterra imperiale dell'800 si era arrivati a tanto. La risposta (molto probabile) è che, soddisfatte le necessità di governo, queste classi dirigenti non temono le conseguenze di una sostanziale riduzione del benessere e della democrazia; e ciò appare tanto più evidente confrontando il comportamento delle élites politiche mondiali di fronte all'esplodere di questa crisi economica con quello tenuto dopo la crisi del '29. In quell'anno, infatti, si chiudeva, col famoso crack di Borsa, la fase espansiva sregolata degli anni '20 negli USA mentre la crisi si propagava sia agli altri paesi industrializzati sia a quelli meno sviluppati. La reazione immediata suona familiare: troppa speculazione, troppi debiti, le banche hanno creato troppa moneta; e poi, bisogna ricondurre l'economia a uno stato di finanza sana, unica premessa di una ripresa. Così si comportarono il Presidente americano Hoover (fino al 1932) il ministro delle Finanze inglese Snowden e, purtroppo, il cancelliere tedesco Brüning, le cui misure precipitarono la Germania nella depressione che favorì l'avvento del Nazionalsocialismo. Inutilmente, nei primi anni '30, Keynes cercò di mettere in guardia contro queste Teorie della crisi. Fin dal '19, infatti, aveva sostenuto, contro l'opinione dei politici, che le popolazioni non erano più disposte ad accettare i penosi aggiustamenti che il gold standard (il sistema di parità aurea) rendeva di volta in volta necessari. In linguaggio economico, Keynes diceva che la deflazione è pericolosa come l'inflazione: in tal modo contrastava la visione ortodossa che vedeva nella seconda l'unico, vero pericolo, in quanto sovverte la base proprietaria della società. Di conseguenza aveva criticato sia le (assurde) riparazioni imposte alla Germania col Trattato di Versailles del '19, sia la rivalutazione della sterlina di cui si era cominciato a discutere nei primi anni '20 e che fu attuata successivamente da Churchill. Qual era il pericolo? Il conflitto tra reazione e rivoluzione, secondo Keynes. Ma prima del fatale 1933 l'unico vero pericolo era la presenza di un'URSS bolscevica e la relativa minaccia di propagazione del sovvertimento comunista mentre nessuno poteva prevedere Hitler e le sue scelte obbligate; di sicuro né Roosevelt né Keynes. Il New Deal, infatti, oltre a essere mosso (tra i vari interessi) da un senso di responsabilità verso il paese, aveva come motivo implicito e sostanziale quello d'impedire il contagio della minaccia sovietica... Va sottolineato, comunque, che tra le misure del New Deal ci fu un maggior riconoscimento dell'attività sindacale, fatto che avrebbe contribuito, nel dopoguerra, a quella crescita costante della massa salariale dei lavoratori americani che ne fece un pilastro della domanda interna. Riassumendo, si può affermare che l'uscita rooseveltiana dalla crisi del '29 configurò un ampliamento dello spazio democratico grazie all'accoglimento delle critiche, elaborate da Keynes, verso la Teoria tradizionale. Quella teoria, infatti, presa a base delle politiche economiche in Inghilterra e Germania, aveva provocato solo danni, quando non disastri; e tuttavia viene riproposta oggi come salvifica! Dopo la 2a guerra mondiale il pericolo assunse la forma di un confronto mondiale tra due blocchi guidati rispettivamente da USA e URSS. A partire dall'Inghilterra, con il Piano Beveridge del '43, si costruì un nuovo patto sociale tra governanti e governati, con l'impegno dei primi a ridurre l'incertezza economica e sociale dei secondi. Una prima misura furono le politiche di stimolo del pieno impiego, a tal punto efficaci che negli anni '60 gli economisti si chiedevano se il ciclo economico classico (fasi di crescita e di riduzione del reddito nazionale) esistesse ancora, in quanto il reddito cresceva di più o di meno, ma continuamente. Il secondo insieme di misure fu quello che viene chiamato sinteticamente Stato sociale. La massa di risorse da impiegare per garantire sistemi assistenziali atti allo scopo era così ingente che solo politiche ispirate alla nuova teoria che Keynes aveva portato a compimento nel '36 potevano gestirla. Questa è la base del trentennio di crescita del reddito nazionale e del benessere di ampi strati di popolazione iniziato alla fine della guerra. Negli anni '70, con la spinta demografica, il sistema va in crisi: alta inflazione e bassa crescita materializzano il fantasma della stagnazione (stagnazione+inflazione). Agli inizi degli anni '80, le economie mondiali furono, così, mandate in recessione col duplice scopo di raffreddare l'inflazione e di chiudere l'epoca delle politiche keynesiane, con correlata crescita salariale. Il saggio, scritto alcuni anni fa dall'attuale presidente della Federal Reserve (FED) Bernanke, è fin dal titolo (La grande moderazione) un bollettino della vittoria: moderazione dei prezzi, diceva Bernanke, ma intendeva moderazione dei salari. Non è questa l'occasione per ricostruire le grandi trasformazioni delle economie mondiali da allora a oggi, ma, tuttavia, non v'è dubbio che in quella svolta si annidavano i germi che avrebbero portato alla bolla finanziaria, la cui esplosione tra il 2007 e il 2008 ha innescato la crisi attuale coi suoi aspetti salienti: • lentezza e andamento altalenante della ripresa; • politiche di consolidamento fiscale che strozzano gli incipienti recuperi; • crisi dei debiti sovrani (come ultima configurazione di quella crisi finanziaria mai domata, né curata realmente). Si può partire da qui per un confronto con la Grande Depressione. Gli USA, ma anche l'Italia Fascista nel 1936, individuarono nella sregolatezza finanziaria uno dei fattori d'instabilità che avevano provocato e acuito la crisi. La terapia fu quella riforma dei sistemi bancari rimasta in vigore fino agli anni '90, con la separazione tra banche commerciali (che gestiscono i depositi) e banche d'investimento. Il governo Amato (coperto da boiardi e speculatori anche grazie alla "distrazione" posta in atto dall'avvio del ballon Tangentopoli) revocò la riforma nel 1992, Clinton la smantellò nel 1999, contribuendo alla formazione della bolla successiva. Stavolta, dopo la crisi, ci sono state solo chiacchiere, riunioni, documenti ma nessuna vera riforma che ripristinasse la separazione dei due rami dell'attività bancaria. Addirittura i dirigenti di grandissime banche (salvate con soldi pubblici) si sono attribuiti nuovamente bonus enormi, come prima della crisi mentre proposte moderate, come quelle di una commissione inglese e dell'ex presidente della FED Volcker, tese ad allentare i legami tra le due attività, non hanno avuto seguito. Quest'assenza di riforme del sistema bancario e finanziario è sintomatica. Diversamente dal New Deal, la politica oggi non può e non vuole rimettere ordine nel settore. Va ricordato che il primo discorso del caminetto di Roosevelt fu dedicato proprio alla riforma del sistema bancario. Oggi Ben Bernanke prima, Draghi poi, hanno agito energicamente per salvare il sistema finanziario da un collasso che avrebbe travolto tutti, ma di riforme del settore neppure l'ombra. Questo è il vero scandalo, non gli interessi di favore che la BCE di Draghi pratica alle banche europee! Le cose non vanno meglio sul fronte del mercato dei beni e del lavoro. Tra il 2008 e il 2009, la caduta mondiale della produzione e degli scambi commerciali è stata più rapida che non all'inizio della Grande Depressione. Ma grazie all'intervento tempestivo e massiccio degli USA, a quello tardivo e limitato dell'Europa, e al fortissimo intervento reflattivo interno della Cina, la caduta si è arrestata, lasciando, come ovvio strascico, una crescita dei deficit statali. Del resto, con un PIL in contrazione, una raccolta fiscale calante e sussidi di vario tipo in aumento, non poteva essere altrimenti. Il buonsenso (ma anche Keynes e i premi Nobel Krugman e Stiglitz) suggeriva di aspettare il consolidamento della ripresa prima di ridurre i deficit; invece, dalle due parti dell'Atlantico (soprattutto da questa) è partita una violenta campagna guidata dalla Germania volta ad azzerare nel più breve tempo possibile i disavanzi statali e culminata nell'assurdo inserimento del vincolo al pareggio di bilancio nelle costituzioni dei paesi dell'Eurozona (tra cui la ns. recentissima, menata a vanto dal Governo Monti...). Questo risultato è stato ottenuto agitando la minaccia di lasciar fallire i paesi che necessitano di aiuto per far fronte alla crisi dei propri debiti sovrani. Ovviamente, il vincolo al deficit implica una politica di tagli alla spesa sociale invece che alla spesa pubblico-politica. Questa è la linea esposta dal presidente della BCE Draghi in una recente intervista: meno Stato sociale e meno garanzie contrattuali ai lavoratori. Linea rigorosamente seguita dall'attuale governo italiano ed esattamente opposta a quanto fatto negli Usa per uscire dalla crisi del '29. La ripresa, tuttavia, è debole, mentre tagliare le spese sociali minaccia la coesione sociale e induce recessione. Nessuno si preoccupa delle conseguenze? Queste non riguardano solo gli strati più poveri della popolazione,ma vaste platee di lavoratori appartenenti a quel ceto medio che in questa perdurante recessione sta pesantemente regredendo. La svolta degli anni '80 ha comportato la rinuncia a politiche di pieno impiego; gli anni '90 hanno portato una crescita della flessibilità (cioè della precarietà...) che si è scaricata suoi nuovi occupati, giovani ed extracomunitari; ora è partito l'attacco alle garanzie contrattuali conquistate in un secolo e mezzo di lotte condivise. Il patto postbellico è revocato: i lavoratori si devono assumere di nuovo tutta l'incertezza dell'andamento dei mercati in termini di quantità e di stabilità del lavoro. Ma non basta: finora lo Stato sociale, protezione dall'incertezza della vita (malattie, anzianità, eventi eccezionali) era stato intaccato solo marginalmente. Ora invece è sotto attacco. Nell'Inghilterra dell'800 l'aumento di diritti sul posto di lavoro era andato di pari passo con l'espansione della democrazia: e non è stato un caso. Ridurre la vita a una lotta costante per la sopravvivenza ferisce la democrazia. Chi non è libero dal bisogno, non è libero politicamente. La forma democratica e le sue istituzioni si svuotano, limitate e scavalcate dalle scelte fatte in altre sedi che non ammettono contraddittorio e alternative. Tantomeno difesa. Avrebbe anche senso, infatti, prospettare la necessità di sacrifici purché la popolazione li possa scientemente accettare. Di nuovo, stupisce che nessuno si preoccupi delle conseguenze di questa compressione dei diritti democratici formali tra vari paesi e sostanziali all'interno degli Stati. Dopo la Grande Depressione era stato stilato un patto che riduceva l'incertezza; questo patto è stato sottoposto a revoche sempre più incisive. Se allora la democrazia era stata allargata, adesso la si restringe. Perché? Probabilmente perché i gruppi dirigenti non hanno più paura. Nel 1991 cadde l'Unione Sovietica; negli anni '90 fu revocata la riforma dei sistemi bancari attuata dopo la Grande Depressione. L'ideologia del liberismo estremo afferma che i mercati sono in grado di regolarsi da soli; ma questo è il catechismo per l'opinione pubblica e per gli economisti in carriera. La vera ragione di quell'entusiasmo di parte è altra. Non importava che i mercati fossero davvero capaci di autoregolarsi; anche in caso contrario, la situazione era cambiata in modo tale che le élites dominanti non avrebbero pagato pegno per gli eventuali fallimenti. E qualora venga meno un po' di consenso per le usuali forme democratiche, basta revocarle. Meno democrazia è dunque la parola d'ordine (degli economisti finanziari) per l'uscita da questa crisi, perché è cessata la grande paura che la mala gestione dell'economia e della vita delle popolazioni possa innescare la rivoluzione. I ceti medi non fanno le rivoluzioni: e le élites, purtroppo, lo sanno... F.to ONG

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