lunedì 11 luglio 2011
Il "Fronte della Tradizione" allo Spazio Ritter di Milano
Venerdì scorso, allo Spazio Ritter di Milano, si è riunito il "Fronte della Tradizione", erano presenti: (nella foto, da sinistra):
- ATTILIO CARELLI
(Dirigente Nazionale e Segretario Regionale della Fiamma Tricolore della Lombardia, storico esponente della destra missina),
- FRANCESCO FILIPPO "Franz" MAROTTA
(Dirigente del Movimento Destrafuturo e del Comitato Destra per Milano, collaboratore della rivista e del Centro Studi Polaris),
- il "Barone Nero" Nob. Cav. Dott. ROBERTO JONGHI LAVARINI Von Urnavas
(Presidente del Comitato Destra per Milano, vice Presidente del Centro Studi Storici e Politici Intenazionali Patria e Libertà, Dirigente del Movimento Destrafuturo, Membro della Società Genealogica Italiana),
- il Nob. Cav. Dott. DIEGO MARTINO ZOIA dei Puschina
(Presidente della Fondazione Cajetanus, Presidente del Circolo del Regno Lombardo-Veneto, Capogruppo della Lega Nord nel Comune di Inveruno, Avvocato del Tribunale Ecclesiastico Regionale Lombardo),
- il Dott. FRANCESCO "Doppio Malto" CAPPUCCIO
(giornalista e insegante, Presidente del Centro Letterario Ritter, già Portavoce di Cuore Nero e Casa Pound Lombardia),
- il Conte Cav. Gran Croce Dott. Prof. FERNANDO CROCIANI BAGLIONI di Serravalle di Norcia
(Presidente del Centro Studi Patria e Libertà, Presidente del Centro Studi sugli Ordini Cavallereschi, Presidente del Centro Studi Pio IX, Membro del Collegio Araldico di Roma e della Società Genealogica Italiana),
- la Contessa Donna ELENA MANZONI di Chiosca e Poggiolo
(Preside della Confraternita di San Jacopo di Compostela della Lombardia, mamma di "Pippa Bacca" e sorella del maestro artista Piero Manzoni),
- il Comandante ARMANDO SANTORO
(Presidente della Unione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale Italiana di Milano e Dirigente della Associazione Nazionale Arditi d'Italia, già Ardito Volontario nella Legione Autonoma Ettore Muti della RSI),
- il Dott. LUCIANO GARIBALDI
(giornalista, storico e scrittore, esponente della destra monarchica).
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“ Brioches ( e gelato ) al popolo ! “
- L’aristicrazia del terzo millennio -
A termine dell’evento milanese “Brioches al Popolo,”organizzato da Patria e Libertà e Destra per Milano, che ha visto la partecipazione attiva di moltissime personalità del mondo aristocratico e di Destra. L’unicità e la perseveranza in valori mai mitigati, mai dimenticati , determinanti nella condotta e nello stile di vita, hanno come esempio lo stoicismo aristocratico alle soglie del terzo millennio.
Chiude oggi l’incontro aperto al pubblico dal titolo “ Brioches al Popolo”. che ha avuto come protagonista il Conte prof. Fernando Crociati Baglioni, Presidente del Centro Studi Storici Politici Patria e Libertà. Pur non avendo avuto dalla sua una tempistica adeguata per approfondire ogni sfaccettatura riguardante la rilevante tematica, l’Aristocrazia del Terzo Millennio, con rinnovata intensità e passione e’ comunque riuscito ad affrontare l’argomento con notevole capacità di analisi e sintesi. Virtù accentuate dall’ottima scelta come moderatore di Francesco Cappuccio del circolo Letterario Ritter sede dove ha avuto luogo l’evento. La “provocazione Brioches al Popolo” non e’ casuale. Formula semi-seria, pungolo ironico verso quel clima culturale, retrogrado e ideologicamente forviante che caratterizza tutt’ora l’universo di sinistra. Il prof. Crociani , nell’esposizione dettagliata delle problematiche inerenti ad una conformità di idee ed intenti in tal senso, ha espresso la propria totale fiducia nel comune impegno contro ogni sorta di scontro politico d’antan. Crociani Baglioni e’ più volte intervenuto a sollecitare con fermezza la cultura come stile di vita del proprio tempo, scevra da ogni forma di dietrologia allarmante. Una concettualità che con face alle nuove e alle vecchie generazioni aristocratiche: interfaccia meta-fisico, meta-storico, identitario e funzionale all’operosità degli uomini della Tradizione sempre più orientati all’unico bipolarismo politico-istituzionale. Fra una brioches al gelato e un bicchiere di sangria non e’ certo venuta a mancare la fluidità del dialogo, favorito dall’ottima intesa tra relatore e moderatore. Spaziando dalle argomentazioni di carattere nazionale ed internazionale, accentuando il rapporto con le vecchie aristocrazie islamiche in merito all’attuale situazione del mondo arabo, rammentandone l’importanza, il nostro antico essere mediterranei, europei, dal forte richiamo organizzativo e di identità. Sia Crociani Baglioni, sia Cappuccio, hanno messo in risalto l’unicità del concetto aristocratico evoliano, attribuendone tutte quelle peculiarità dello stato, passate e presenti, fondanti della democrazia organica. Coscienza dell’unità d’Italia nel suo 150esimo anniversario; disquisendo sulla correlazione tra le due diversificate monarchie Savoia e Borbone. Quest’ultima, dalla volontà , oggettivamente, poco incline allo sforzo congiunto per costruire l’Italia Unita. Valore dell’aristocrazia per eccellenza, accentuato dall’eroismo, a cavallo delle due guerre mondiali, esempio di immensa prova epica di appartenenza italica. Molteplici gli interventi di personalità di spicco del mondo accademico, nobiliare, politico e giovanile. Testimonianza di valori mai sopiti, capaci di indurre sconcerto all’interno delle multiformi realtà di “sinistra memoria.” Il maggior elemento identificativo viene dalla rivolta di Plaza del Sol a Madrid contro il governo Zapatero. Tumulto di popolo contro l’ambiguo governo spagnolo, testimonianza del sacrificio contro le difficoltà della vita alimentate da quest’ultimo, della scesa in piazza della vera Destra spagnola al fianco di chi pur non avendo, etimologicamente nessuna vicinanza al percorso aristocratico e di destra, pur di riaffermare la legalità dell’essere in primis spagnoli, destandosi dall’inadeguatezza e decadenza della classe politica spagnola. Infine, e’ stato osservato un minuto di silenzio in ricordo e alla memoria di Sua Maestà Imperiale e Reale Apostolica Ottone D’Asburgo, figlio dell’ultimo Imperatore d’Austria - Ungheria Carlo I. La commozione ha lasciato il passo alla fierezza, alla coscienza, distinta, corale, dell’eredità e dell’insegnamento del compianto Otto d’Asburgo.
Ringraziamo tutti i presenti intervenuti alla magnifica serata. Certi di aver fatto comprendere tutti quei valori che fanno parte della nostra vita. Certi di aver fatto conoscere anche se in minima parte e ci auguriamo in futuro in maniera più approfondita, una significativa pagina di storia e cultura millenaria europea.
Resoconto a cura di Francesco Filippo Marotta.
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Prima considerazione inattuale: recuperare il giusto concetto di "aristocrazia"
di Francesco Lamendola
La parola greca aristokratía non significa, come alcuni pensano, "governo dei nobili" (in senso ereditario), bensì, semplicemente, "governo dei migliori": deriva, infatti, dal sostantivo áristos, "il migliore", e dal verbo kratéo, "io domino". Per gli antichi, a cominciare da Platone, l'idea che la società dovesse essere governata dalle persone migliori era talmente ovvia, da non meritare neppure una particolare spiegazione. Ma poi, con la Rivoluzione francese, la parola "aristocrazia" è diventata impronunciabile e, ancora oggi, suona poco meno che come una parolaccia. Se vi vuole evidenziare l'atteggiamento antipatico, pretenzioso e sforzatamente ricercato di qualcuno, gli si affibbia l'epiteto di "aristocratico", e quello può considerarsi marchiato a fuoco per sempre.
Eppure, se andiamo a consultare un vocabolario della lingua italiana - per esempio, lo Zingarelli - non tardiamo ad accorgerci che esiste almeno un significato della parola "aristocrazia", che non è né quello di designare il governo esercitato da un particolare ceto, né, tanto meno, quello di designare la classe dei nobili in quanto tale; ma che indica, semplicemente, "il complesso delle persone meglio qualificate per svolgere una determinata attività".
Altro che parolaccia: questo è puro buon senso. Eppure ci siamo allontanati da ciò che è evidente, abbiamo smarrito il buon senso, rincorrendo affannosamente parole d'ordine populiste e demagogiche: e il risultato è stato una aristocrazia alla rovescia, una prevalenza dei peggiori, ossia dei più incompetenti, fannulloni e presuntuosi.
Predicando un egualitarismo irresponsabile e cialtrone, abbiamo scatenato gli istinti peggiori insiti nella natura umana: l'invidia verso chi è migliore, il rancore contro chi vale di più, l'odio per ciò che emerge in virtù dei propri giusti meriti. C'è stato, e prosegue tuttora, un linciaggio morale delle persone di valore: linciaggio che incomincia fin dai banchi di scuola, ove lo studente più intelligente e volonteroso è etichettato come "sgobbone", "secchione" e via dicendo, e additato al disprezzo dei compagni.
Pervasa da un sinistro, demoniaco bisogno di irridere il bene e pascersi dello spettacolo offerto dal male, la società moderna ha scoperto che scandalizzare il prossimo è una bella cosa e che, per riuscirci, la strada più sicura da battere è quella di una esaltazione sistematica delle qualità umane peggiori e una denigrazione, altrettanto sistematica, delle migliori (cfr. il nostro precedente articolo Dobbiamo reimparare a indignarci davanti ai seminatori di scandali, sempre sul sito di Arianna Editrice).
Siamo arrivati, così, all'assurdo che non solo i peggiori occupano posti di responsabilità, mentre i migliori, spesso, vengono misconosciuti ed emarginati; ma, addirittura, che tale pratica distruttiva viene eretta al valore di principio e di norma, ed è proclamata ai quattro venti come il nuovo Vangelo della modernità.
Ciò che ha reso intollerabile, storicamente, il predominio dell'aristocrazia come classe sociale, è stata la sua evidente inadeguatezza a svolgere il proprio compito di classe dirigente: non a caso Foscolo, nel carme Dei sepolcri, descrive i nobili del suo tempo come dei morti viventi, preoccupati solo di soddisfare le proprie mollezze. Ma una aristocrazia dello spirito, una aristocrazia delle responsabilità e delle competenze, è necessaria a qualunque società voglia conservare un certo grado di ordine e di efficienza e, soprattutto, di tensione spirituale e di rispetto per se stessa. Una società come la nostra, dove anche di fronte ai fallimenti più clamorosi non si trova mai qualcuno disposto ad assumersi le proprie responsabilità; una società dove i Bassolino se ne vanno solo se la magistratura li mette sotto inchiesta, e non perché le montagne di spazzatura inevasa stiano lì a testimoniare la gestione disastrosa della cosa pubblica, è una società priva di ogni dignità e basata su una aristocrazia alla rovescia, su un "governo dei peggiori".
Sostiene Platone nel primo libro de La Repubblica (traduzione di Francesco Gabrieli, Firenze, Sansoni Editore, 1950; 1990, pp. 29-30):
""Dunque, o Trasimaco, non è ormai chiaro che nessun'arte o governo procura ciò che è utile a sé, , ma, come dicevamo da un pezzo, procura e prescrive l'utile dei sottoposti, cercando quindi il vantaggio di chi è inferiore e non di chi è superiore. Appunto per questo, caro Trasimaco, io ho detto poco fa che nessuno volontariamente governa e si pone a raddrizzare gli affari degli altri, ma richiede una mercede, per il fatto che chi si propone di ben esercitare la sua arte, non fa mai né prescrive il suo meglio, quando prescrive secondo l'arte, ma quello del sottoposto. Per questa ragione, come pare, coloro che accondiscendono a governare devono avere una mercede, o ricchezze o onori, o una pena se non governano".
""Che cosa intendi dire, o Socrate?- domandò Glaucone. - Perché quelle due rimunerazioni le conosco, ma non comprendo invece la pena che dici e di cui parli come fungesse da mercede".
""Non comprendi allora, dissi, la ricompensa dei migliori, per cui i più valenti governano quando consentono a governare. Non sai dunque che l'amore degli onori e della ricchezza sono ritenuti e sono effettivamente biasimevoli?"
""Certo",disse.
""Perciò allora né per ricchezze né per onori i buoni vogliono governare: infatti non vogliono né apertamente richiedere una mercede per la loro attività, perché non li dicano mercenari, e neppure prenderla essi stessi di nascosto, giovandosi della carica, perché non li diano ladri; e neppure, ancora, si lasceranno allettare dagli onori, perché non ne sono cupidi. Bisogna allora che essi, se accettano di governare, si prospettino una necessità e una pena: per cui l'andar al governo volontariamente e non sottostare a una necessità rischia di esser giudicata una cosa turpe. Ora, massima pena, se uno non voglia governare lui stesso, è l'esser governato da uno moralmente da uno inferiore: per questo timore mi pare che governi, quando governa, la gente di qualità, e allora va al potere considerandolo non cosa buona o in cui possa trovar vantaggi, ma come una necessità, e non potendo affidarlo a dei migliori o uguali. Per cui, se esistesse una città di persone valenti, c'è rischio che in essa si gareggi per non governare, come attualmente si gareggia per governare: e così si può veder chiaramente che un capo vero e genuino non è fatto per cercare il proprio utile, bensì quello dei governati. Di modo che chiunque si rendesse conto di questo preferirebbe ricevere utilità da altri piuttosto che ave seccature procurandola ad altri. Che dunque il giusto sia l'utile di chi è superiore, io non lo concedo in nessun modo a Trasimaco".
Dal brano di Platone emerge chiaramente il concetto che assumersi la responsabilità di svolgere una funzione dirigente è non tanto un diritto, ma un dovere morale cui i migliori non possono sottrarsi, pena il fatto di lasciare se stessi, e l'intera società, in balia dei peggiori. I migliori, cioè, non desiderano affatto il potere per i vantaggi che potrebbero trarne, ma esclusivamente per i vantaggi che essi possono procurare agli altri; così come il bravo medico non esercita la medicina per giovare a se steso, ma per giovare ai malati che sono affidati alle sue cure.
Ora, lo stesso tipo di ragionamento si può estendere dalla sfera della politica a quello di qualsiasi altra attività umana. In ogni attività umana, infatti, vi sono due modi di procedere: quello di chi, essendo competente, persegue il bene degli altri, ai quali tale attività è diretta; e quello di coloro che, essendo incompetenti, ma avidi e ambiziosi, sfruttano le posizioni occupate per cercare il massimo del profitto egoistico, infischiandosene bellamente del bene comune. E ciò vale non solamente per quanti occupano posti direttivi - sebbene, in tali casi, gli effetti negativi siano più evidenti e più dannosi -, ma in genere per tutti coloro che vivono in società e che esercitano una attività qualsiasi o una funzione qualsiasi: a partire dalla micro-società fondamentale, sulla quale si regge l'intera comunità, che è la famiglia.
Esercitare male la propria attività e la propria funzione, nel lavoro così come nella vita privata, significa dare continuamente scandalo, nel senso di dare continuamente un cattivo esempio, specialmente ai bambini e ai giovani. Ad esempio, sfruttare delle leggi - forse un po' troppo preoccupate di difendere a ogni costo i posti di lavoro e troppo poco interessate a difendere il bene comune -, per simulare malattie inesistenti o per poltrire, invece di svolgere degnamente i propri compiti, per i quali si riceve un salario o uno stipendio, significa danneggiare doppiamente la società: sprecando risorse materiali e dando un pessimo esempio sul piano morale.
Ecco allora che l'invito rivolto da Platone ai migliori, perché escano dal proprio comodo quieto vivere e si facciano carico di assumersi responsabilità pubbliche, appare per quello che effettivamente è: un sacrosanto incitamento a promuovere la parte altruista, seria e onesta della natura umana, affinché non prevalgano le tendenze peggiori: la pigrizia, l'egoismo, la superficialità, la furberia da quattro soldi.
Ma, si obietterà, chi sarà in grado di stabilire chi siano i migliori, perché essi possano svolgere, nella società quel ruolo utile e necessario, dal quale dipende, necessariamente, il suo buon funzionamento?
È certo una domanda legittima; ma, troppo spesso, viene strumentalizzata in mala fede, al fine di insinuare il dubbio che, non essendovi alcun criterio oggettivo di selezione dei migliori, ne consegue che il male minore, per la società, è quello di lasciare che "le cose vadano per il loro verso", ossia che si affermi chi vuole e chi può: anche se costui non possiede affatto i requisiti per aspirare ad un posto di responsabilità e se è mosso non dal senso del bene pubblico, ma dalla prospettiva di vantaggi personali.
In fondo, pensano i paladini un democraticismo e di un egualitarismo astratto e velleitario, è meglio che la società sia condotta dai mediocri, piuttosto che cada nelle mani di qualcuno che, con la scusa di essere "il migliore", aspiri al potere per creare una sorta di dittatura del merito. Poveri sciocchi, che non vedono come questa filosofia ha già consegnato la società in mano a una dittatura: la dittatura dei peggiori: dei più incompetenti, dei più cialtroni, dei più meschini. Ovunque, infatti, si assiste allo stesso meccanismo in azione, il meccanismo dell'invidia e del rancore: quando il sottotenente tormenta i soldati semplici per la stizza di non essere capitano; quando il professore fa la fronda contro il preside, perché vorrebbe essere al suo posto; quando il giornalista s'incattivisce contro tutti, perché ritiene di essere stato defraudato del posto di direttore del giornale, che, a suo parere, gli spettava; e via dicendo. E gli effetti di questa spirale perversa e distruttiva sono, purtroppo, sotto gli occhi di tutti.
Ovunque, chi occupa un posto inferiore odia chi sta al di sopra di lui e ne boicotta il lavoro, non perché ritiene che lo stia svolgendo male, ma perché gli brucia dovergli riconoscere una preminenza. Chi è inadempiente, lavativo e inefficiente, mobilita avvocati e sindacati per ripristinare i suoi "presunti" diritti, violati dalla sentenza iniqua, a suo dire, di qualche tribunale del lavoro; il dipendente pubblico, licenziato perché rubava il denaro degli utenti, mette a rumore mezzo mondo per farsi riassumere in servizio e pretende le scuse dell'amministrazione; il maestro o il professore pedofilo esige di rientrare in servizio con tutti gli onori e i risarcimenti del caso, oppure, in alternativa, che lo si mandi in pensione dopo averlo promosso; e così via. Di questo passo, non è certo motivo di meraviglia che tutto il meccanismo sociale risulti sempre più inceppato e screditato, sempre più deficitario, sempre più fallimentare. Gli onesti ed i seri devono fare buon viso, ogni giorno, alla incredibile sfrontatezza dei disonesti e dei manigoldi: e le leggi sembrano fatte apposta per tutelare i secondi, non certo i primi.
Non vogliamo, tuttavia, eludere la domanda circa il criterio con cui si dovrebbe stabilire quali siano i "migliori".
Precisiamo subito, intanto, che il concetto di "migliore" istituisce un comparativo di maggioranza: si è migliori rispetto a qualcun altro; non si è perfetti in assoluto.
Ciò premesso, ci sembra che i risultati dovrebbero parlare da soli, se noi avessimo ancora occhi capaci di vedere e orecchi capaci di udire. Chi svolge bene il proprio ruolo, grande o piccolo che sia, non passa inosservato; e così pure chi lo svolge male: a patto che la società non sia talmente traviata dai cattivi esempi e talmente frastornata da una demagogia chiassosa e triviale, da aver smarrito anche il grado più elementare di buon senso.
A volte, purtroppo, verrebbe da pensarlo.
Che altro bisogna pensare, ad esempio, davanti allo sconcio e drammatico spettacolo di migliaia di tonnellate di spazzatura, rimasta inevasa per anni ed anni nelle città e nei paesi della Campania, mentre però si assiste alla rielezione di quegli stessi amministratori e uomini politici che portano la responsabilità di una tale indecenza e che, fra parentesi, sono pagati profumatamente per prendere le decisioni utili e necessarie al pubblico bene?
E tuttavia, noi abbiamo sempre l'obbligo dell'ottimismo della volontà, per quanto la ragione ci inclinerebbe a un pessimismo radicale. A nulla giova, infatti, compiacersi del fatto che ogni cosa vada di male in peggio. È più utile un solo individuo il quale, nel suo piccolo ambito di vita e di lavoro, cerca di assolvere con amore, con scrupolo e passione ai propri doveri, che mille profeti di sventura, i quali null'altro sanno fare se non distribuire a piene mani, dall'altro della loro sterile "saggezza", un fatalismo che paralizza e scoraggia ogni slancio generoso, ogni desiderio di bene, e lascia le cose esattamente come stanno.
Non di simili intellettuali, imbelli e parolai, abbiamo bisogno; ma di persone umili e forti, pazienti e coraggiose al tempo stesso: che sappiano armarsi di una forza e di un coraggio che le assista, giorno per giorno, nelle piccole battaglie della vita, e, dal cui esito dipende la qualità dell'intero corpo sociale.
In altre parole, abbiamo bisogno di schiere sempre più numerose di persone serie e bene intenzionate: di aristocratici, appunto, nel senso etimologico della parola, che spargano intorno a sé il doppio beneficio della competenza e del buon esempio.
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Prima considerazione inattuale: recuperare il giusto concetto di "aristocrazia"
di Francesco Lamendola
fonte Arianna Editrice
inserito negli archivi di juliusevola.it il 20/05/2008
stampato dal sito www.juliusevola.it il 11/07/2011
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