CCP

giovedì 28 febbraio 2013

Cameratismo e goliardia.



I Camerati non dimenticano, hanno una memoria formidabile, come gli elefanti. Non solo, i Camerati hanno il massimo rispetto per gli avversari leali ma disprezzano profondamente gli infami ed i traditori. Per questo, con spirito assolutamente goliardico, ieri sera, in Piazza San Babila (luogo simbolo della destra milanese anni '70) hanno voluto platealmente brindare (rigorosamente con vino nero Sangiovese di Predappio), all sconfitta politica e morale di Gianfranco Fini, escluso dalla camera dei deputati, della quale era presidente. Fra il centinaio di militanti, uomini e donne, di varia età, estrazione e sigla politica di appartenenza, erano presenti volti noti come: Antonio Bastone, Attilio Carelli, Giuseppe Catena, Franco Ferrero, Gianluigi Giussani, Roberto Jonghi Lavarini, Carletto Lasi, Franz Lauri, Gabriele Leccisi, Battista Occhionero, Oscar Rebughi, Pierangelo Pavesi, Nicola Sensale, Ciccio Sciscio, Sergio Spinelli, Diego e Mauro Zoia, Edoardo e Simone, i camerati "Bomber" e "Tonnellata".






Ricordi e riflessioni del "mago" Merlino...



Bastoni e barricate...

Ricordo bene. Ritrovo un articolo di Pierre Drieu la Rochelle del 3 marzo 1939, pubblicato su Je suis partout (la rivista più radicale del fascismo francese e di cui Robert Brasillach fu capo redattore durante gli anni della collaborazione). Titolo: Ancora e sempre Nietzsche. Cercavo un episodio di quando era in guerra, dove racconta d’aver messo nello zaino da fante, una sorta di viatico, la copia del Così parlò Zarathustra, dono di sua madre. Scrive: ‘Nella battaglia di Charleroi, fui ferito e dovetti liberarmi dell’equipaggiamento. (In effetti, dopo un momento esaltante ed eroico in cui aveva guidato alla carica gli altri fanti del suo plotone, sotto le raffiche delle mitragliatrici e della fucileria nemica, la paura era subentrata e con lei la fuga). Fu così che il mio Zarathustra rimase con lo zaino, come un trofeo, sul sentiero di un boschetto a qualche chilometro dalla frontiera belga. Fu bruciato o raccolto da qualcuno? Immagino uno studente tedesco in uniforme fare quella piccola scoperta e scuotere il capo. Decifra qualche nota a margine e si ritrova mio fratello di spirito e tutto sommato anche di sangue’.
Nel 1963, avevo diciannove anni, quando esce in edizione italiana La Commedia di Charleroi,‘il capolavoro narrativo dello scrittore proibito’, come recitava la fascetta gialla sulla copertina, e la vicenda di cui sopra vi è raccontata con quella capacità di denudarsi interiormente, folle e disperato, che tanto affascina il lettore attento e coinvolto di Drieu. Credo che vi siano state ristampe presso altre case editrici in tempi più prossimi. Su uno scaffale vi sono tutte le opere degli scrittori francesi che scelsero, a vario titolo, l’ardua e odiata via della collaborazione con il tedesco, nel giugno del ’40, vincitore. Altri partirono, nel 1941 e successivamente, per il fronte dell’Est fino ad essere gli estremi difensori dell’Europa fra le macerie di Berlino. Là dove, per dirla con Adriano Romualdi, si consumò la ‘finis Europae’ e che Saint-Paulien ha descritto magistralmente ne I leoni morti… (Il libro che portai con me a Berlino per cercare, al di là del muro, le tracce e i luoghi di quell’epopea; libro che avevo prestato e che avrei voluto recuperare il pomeriggio di quel 12 dicembre mentre rientravo a casa… ma questa è altra storia, ormai inessenziale).
 
Scrivo questo articolo (?) domenica mattina prima che sia dato il via al gioco delle schede di color rosa e quelle gialle e, qui nel Lazio, tanto per non farci mancare nulla, anche verdi. Alla fiera delle vanità… Sarà pubblicato, suppongo, quando dalle televisioni dalla radio carta stampata manifesti e commenti al bar sull’autobus nelle metropolitane al mercato vincitori (?) e vinti (?) plaudiranno o si stracceranno le vesti, tutti politologi tutti ansimanti in schizzi di libidine del politicamente corretto (forse più scorretto vista la magra figura da statisti della classe dirigente dei partiti dei sindacati di associazioni e la voracità dell’abbuffata). Così, non possedendo la palla di vetro o non avendo ereditato la bacchetta magica del mio antenato, mi asterrò da previsioni anche perché – non si sappia in giro – sono stato fin da studente un pessimo conoscitore di numeri cifre grafici ecc.. Però vorrei dire qualcosa, garbatamente, su quelle che sono le mie segrete aspirazioni non del futuro, che è troppo alla mia età, ma di un tempo il più prossimo possibile…
 
Pochi mesi addietro mi trovavo a cena d’amici con altri ospiti. Fra costoro un giornalista de Il Sole 24 Ore di cui non rammemoro il cognome, sebbene sia considerato un analista di valore. Inevitabile che il conversare abbia seguito la piega verso l’attuale crisi economica e finanziaria di carattere mondiale. Qualcuno, memore di letture scolastiche marxiane e forse nostalgico della propria giovinezza trascorsa negli anni della contestazione, faceva riferimento alle ricorrenti cicliche crisi del sistema capitalista. Altri al ‘giovedì nero’del 1929 quando dagli Stati Uniti si sparse a macchia d’olio una crisi che alimentò, secondo alcuni storici, l’affermarsi del totalitarismo e la convinzione che fosse suonata la campana a morte del capitalismo. La convinzione sempre più diffusasi - e mi tornavano a mente le considerazioni dell’amico Giano Accame - come le ‘demoplutocrazie’ fossero rappresentate da governi imbelli e asserviti alle lobbyes ebraiche (perché oggi, no?) e ormai composte da una popolazione svirilizzata e senile. Errore fatale perché nell’eterna guerra del sangue contro l’oro quest’ultimo è pronto a tutto pur di salvare se stesso, riaffermare il proprio predominio e potenziarsi. Fu il presidente USA Roosevelt ad incaricare i suoi consiglieri, che portavano il cognome di Rothschild e Morgenthau, di verificare quanta pericolosità vi fosse nell’espansione del fascismo in Europa. La risposta fu che, se entro dieci anni non si fosse posto rimedio, l’America sarebbe stata estromessa dal Vecchio Continente. Il rimedio: dal 1938 una ‘sana’ politica di riarmo, poi con il Lend-Lease Act rifornimenti bellici all’Inghilterra e successivamente all’Urss, volgendo contemporaneamente la sua attenzione verso il Pacifico e il Giappone…
Non mi andava di fare ‘il grillo parlante’, anche perché la cucina della padrona di casa meritava una attenta rispettosa meticolosa cura (spaghetti all’’n’duja polpette di carne e di melanzane contorno di cipolle funghi peperoni gratinati soppressata e silano, insomma una cena leggera della tradizione calabrese…).Così, dando soddisfazione al giornalista che avvertiva, un po’ tronfio di sé, d’essere il ‘piatto forte’, gli ho chiesto – con la modestia il tono sommesso quasi timidamente com’è nella natura del mio animo schivo (!?) – quando e in che termini prevedevano gli economisti, in Italia e all’estero, il superamento, l’uscita dalla crisi.
 
‘Non ci preoccupiamo troppo perché prevediamo che, entro tre o quattro anni, ci sarà una guerra…’. Pausa d’effetto, modulazione della voce, sguardo profetico di chi vede cose non percepibili da noi comuni mortali, immersi nella mota dell’ignoranza. ‘Non una guerra convenzionale, carri armati e cannoni. Una guerra di bastoni e barricate…’.

Rodolfo, nel proporre i temi cari ad Adriano Romualdi – e, in particolare, l’opera postuma, riedita in questi giorni, Il Fascismo come fenomeno europeo -,ricordava come egli si fosse inserito nel dibattito storiografico, tra Renzo de Felice e richiami al pensiero di Evola, perché convinto che bisognasse portare un contributo scientifico allo studio appunto del fenomeno fascista per evitare che la memorialistica il reducismo la nostalgia finissero per prevalere e ingabbiare ogni proposta di lettura e rilettura alternativa. Ne abbiamo parlato sabato pomeriggio presso l’a.c. Raido che si propone sempre con incontri stimolanti e,in un certo senso, ‘trasgressivi’. Duole, quando si rammenta un amico scomparso e figura sicuramente di riferimento e di crescita, dover dissentire. Io credo, però, ad esempio con Mishima, che le emozioni precedano il ragionamento e che, con Drieu la Rochelle, il ruolo dell’intellettuale sia di collocarsi là dove altri non sono ancora arrivati, magari sporcandosi i piedi e cercando di evitare di sporcarsi le mani… Fu sulle scalinate di piazza di Spagna che si consumò, anche in modo plastico, la frattura, 1 marzo 1968, e poche ore dopo fummo avanguardia di lotta, bastoni e molotov, a Valle Giulia. Alla ricerca di… ‘tu chiamale se vuoi emozioni’, cantava Lucio Battisti.
 
Qualcuno propone, dopo l’ubriacatura elettorale di prefissi telefonici invidie ripicche distinguo personalismi steccati, di sedersi finalmente intorno ad un tavolo e, guardandosi negli occhi, cercare nel confronto l’unità d’intenti che tutti auspicano ma che, in fondo, nessuno intende realizzare. I corvi preferiscono pavoneggiarsi con le penne del pavone piuttosto che riconoscere nel volo delle aquile la grandezza di tutti e per tutti… Io stimo, provo affetto, per chi vorrebbe il superamento delle divisioni, soprattutto, in nome di quel ‘realismo eroico’ al quale abbiamo attinto gli ideali e i sogni della nostra giovinezza. Stima affetto rispetto ma non condivisione…

Una dotta conferenza, con relative pubblicazioni, appaga i relatori, soloni del sapere che, con garbo e in punta di penna, credono di cambiare il mondo…Misurare la consistenza del proprio gruppo, magari strappando ad altri qualche brandello di presenze, appaga la vanità del proprio carisma(?) e della sigla e simbolo d’appartenenza. E, poi? In precedenti occasioni – anche qui su Ereticamente, del resto –abbiamo ricordato l’affermazione del Capitano, Corneliu Zelea Codreanu, ‘la quantità di sofferenza ed amore’. In uno dei primi interventi, divenuto Presidente del Consiglio, Mussolini affermò che si sarebbe battuto perché sulla tavola d’ogni italiano non mancasse il pane. Lo spirito trova se stesso e la misura del proprio valore attraverso l’amore, che è rendere le idee azioni e far sì che queste azioni siano là dove un popolo chiama, magari appunto perché non ha pane sulla tavola. ‘Bastoni e barricate’, con tutti i rischi d’essere dispersi nella marea montante dell’inquietudine della rivolta oppure inesorabilmente trovarsi dalla parte di ‘banche e manganelli’ in sicura e pessima compagnia. E, qui, più che un bagaglio ideologicamente compiuto ognuno di noi dovrà scegliere e mettersi in gioco attraverso le personali emozioni, il proprio buon gusto.
A Valle Giulia tentammo l’impossibile (?), creare un fronte generazionale contro i signori e i loro guardiani a difesa dell’esistente. Ci trovammo contro il mondo adulto, espresso dalle istituzioni e dai partiti di riferimento destra e sinistra. Ne pagammo il prezzo e, nostro malgrado, lasciammo una eredità di lotte odio e sangue sbarre e chiavistelli. Se alcuni di noi sono ancora qui, forse ridicoli e anacronistici, è perché vogliamo essere coerenti con la nostra giovinezza e responsabili delle scelte e delle conseguenze di quelle scelte. E, se qualcuno in un delirio di onnipotenza, pur rappresentando di certo tanta novità e alternativa, ci considera dei superati falliti perdenti, ciò non ci turba né scuote il nostro cuore avventuroso e la mente inquieta… Bastonate e barricate, figlie del kaos, per veder nascere stelle danzanti in un cielo che, parafrasando il vecchio Mao, assiste dall’alto e da lunga data a ‘molta confusione’. In nome di un popolo e non di una plebe servile e accattona, bastonate e non manganelli molotov e non lacrimogeni barricate e non blindati. Metaforicamente, va da sé, che poco ci vediamo e poco sentiamo e con la dentiera non si morde e il fiato s’è reso corto e la prostata s’è ingrossata… metaforicamente, forse…

Che c’entra, allora, il ricordo di Drieu, lo zaino con lo Zarathustra, un giovane studente in uniforme feldgrau? Già sul fronte della Grande Guerra, poi nella Parigi della notte del 6 febbraio 1934, nella Francia sconfitta con l’illusione di passare dalla collaborazione ad una solida alleanza per un nuovo ordine europeo, sporcandosi i piedi mai le mani, andare là dove nessuno ha ancora osato. Così i Drieu la Rochelle i Robert Brasillach i Rebatet i Céline e i volontari sul fronte dell’Est. Letteratura? Storia? Romanticismo fascista? Atmosfere in nero? Beh, per alcuni di noi qualcosa in più… ‘noi siamo uomini d’oggi – noi siamo soli – non abbiamo più dei – non abbiamo più idee – non crediamo né a Gesù Cristo né a Marx – bisogna che immediatamente – subito – in questo stesso attimo – costruiamo la torre della nostra – disperazione e del nostro orgoglio– con il sudore ed il sangue – di tutte le classi…’. E, poi, avere finalmente l’estrema verifica di chi è contro e di chi non lo è, di chi sta sulle barricate e di chi si rifugia nell’ovattato e protetto mondo borghese…
 
Mario Merlino
 

Oltre la linea dell'Orizzonte.


Oltre la linea dell'Orizzonte di Mario Merlino

La fotografia mostra il volto di profilo, con i capelli mossi e le guance con la barba rada. Alle stazioni della metropolitana volantini attaccati alle pareti, sulle colonne ad ogni angolo. Uno dei tanti che la famiglia ricerca, spesso senza esito. I passanti osservano, no, danno al massimo una frettolosa occhiata, forse un po’ morbosa, forse non riuscendo neppure a vedere a leggere. Tutti con il cellulare in mano gli occhi impastati di sonno nervosi irritati soprattutto con questa maledetta fretta, inutile, stupida, indotta. Dopo la Riforma luterana, dopo il Calvinismo, sui campanili delle chiese l’orologio a battere anche il quarto d’ora. Lo sguardo ieratico del cambiavalute con sua moglie nel quadro del pittore fiammingo Quentin Metsys. Dominati dalle nuove divinità del tempo che scorre e dove ogni minuto deve essere impiegato nel cerchio osceno del lavorare produrre consumare lavorare o, come poetava Ezra Pound nel Canto XLV, Contro l’Usura, ‘per vendere vendere/ presto e con profitto’.
Dove c… andate? Uomini grigi uomini di paglia uomini formicaio… ed io fra loro, anch’io, peso morto della società, pensionato, trascinato dal vortice, in questa bolgia dantesca ove tutti siamo carnefici e, al contempo, vittime di noi stessi… Eppure, lo confesso, dopo due giorni in campagna – la montagna, la baita di Emilia, il sudore lungo la schiena, il sentiero e la radura sono altra cosa e ne sento forte la mancanza – mi prende la nevrosi del marciapiede delle vetrine degli autobus della gente del semaforo e dei guidatori che ti bombardano con il clacson, mentre bloccati dal traffico gli uomini si mettono le dita nel naso e le donne si rifanno il trucco…
Pino Caruso, a metà degli anni ’60, nello scantinato, divenuto cabaret, canta del legionario di Lucera, quello ‘morto nel Katanga... a quarant’anni e la fedina nera’ (che molti di noi avevano trasformato in‘camicia nera’). Il Bagaglino dove trascorrevamo le serate in compagnia di Mario Castellacci, Leo Valeriano e, a mezzanotte, con un piatto fumante e piccante di penne all’arrabbiata.

Ne ho scritto in Atmosfere in nero. E ancora: ‘se rimanevo a casa/ là nella mia Lucera/ ora sarei arrivato/ coi figli e la pancera./ Avrei la moglie grassa,/ le rate e la 600,/ mutua, televisore, / salotto e doppio mento’. Beh, allora, avevamo vent’anni e ci si perdonerà se ci innamoravamo degli spazi lontani, di pretese d’andar oltre la linea dell’orizzonte dove volgere il passo e il nostro ‘cuore avventuroso’. Poi, poi…magari senza la moglie grassa, guardando poco la televisione e avendo abbandonato la macchina alla definitiva rottamazione…

C’è chi, però, ha preferito trasformare quello spazio e quell’orizzonte in realtà di vita vissuta. Penso a Girolamo. Ci eravamo iscritti alla Giovane Italia lo stesso giorno, lui io e Roberto, il 15 ottobre del 1960, salendo le scale di Palazzo del Drago, a Roma. Senza chiasso, roboanti proclami, se n’era partito, pochi anni dopo, per il Belgio e da lì, arruolatosi come mercenario, in Congo a Leopoldville e Bukavu. Quando rientrava in Italia, sempre più taciturno, spendeva in modo spensierato ed elegante la paga, e con le esperienze accumulate e un rollino di fotografie che sarebbero diventate un bel libro, Il bottino del mercenario. Edito nel 1987, a vent’anni quasi dalla scelta di andarsene in Africa e poco prima di andarsene e per sempre.‘…Una foresta africana, una pozza d’acqua salmastra per dissetarci, una logora divisa kaki che rappresenti qualcosa di nostro’ contro questo mondo ove s’affoga nella quotidianità e dove s’annaspa per sopravvivere salvo essere‘fermamente determinati nel lasciare, quanto prima, questo pianeta da cui ci sentiamo del tutto estranei’. Sembrano echi salgariani, ma Girolamo ha scritto l’ultima pagina non più con l’inchiostro. Memore della massima di Nietzsche:‘Scrivi con il tuo sangue e scoprirai che il sangue è spirito’. Ci incontrammo l’ultima volta in Calabria, dove trascorrevo le vacanze. Poi era ritornato in Argentina, già determinato di non lasciarsi divorare dal male che gli fioriva dentro. Avendo giocato sovente con la morte, non era disponibile a mostrare le carte con la vita, sapendo che in fondo si bara sempre. E così, invece di attenderla, l’è andato incontro ‘ad occhi aperti’.

Nelle stazioni della metropolitana, alle pareti, sulle colonne, ad ogni angolo altri volti, messaggi di richiesta informazioni, succinte descrizioni, numeri di cellulare. Ognuno con la propria storia, il gravoso carico di paure dolori ansie, e tutti che passano nella totale indifferenza preda del nervosismo delle beghe sul posto di lavoro e dalla tanta noia, spesso inconsapevole, che ci uccide nell’aurea prigione borghese. Eppure, in quel volto di giovane dal profilo con i capelli mossi e la barba rada, un’altra storia, un altro esito…Se n’è andato, lo riportava la radio, apparentemente senza motivo, lui studente brillante e non so più che altro ‘di bello e di buono’, per arruolarsi nella legione straniera. Fuori tempo massimo. Niente Indocina Algeria e i romanzi di Jean Lartéguy. Dal viaggio dell’ Ulisse omerico, insensibile al richiamo delle sirene, per tornare alla pietrosa Itaca e alla fedele Penelope; dal desiderio di‘seguir virtute e canoscenza’ in quello del Dante, peregrino all’Inferno, al girovagare per le vie di Dublino dell’Ulysses di Joyce, inutile e anonimo essere qualunque, espressione dell’uomo europeo in cammino per una china scivolosa e melmosa. Gravato dal senso di colpa d’aver voluto edificare, per secoli e in più riprese, un Impero… ed ora avvinto e avvolto nel sogno americano.

Così, lo confesso, quel ragazzo dai capelli mossi e dalle guance ricoperte da rada barba non riesce a suscitare in me sconforto pietà ansia, semmai invidia e speranza. Invidia perché non ho scelto come lui di mettere in gioco i miei vent’anni; speranza perché vuol dire, sia gloria a tutti gli dei ai folli ai ribelli!, che c’è ancora un seme che cresce tra le aride zolle e la nuda pietraia…

Pirma linea...


Il libro: “Prima Linea. Storie di guerra” di Orazio Ferrara

Episodi dimenticati della prima linea sui diversi fronti del secondo conflitto mondiale rivivono in tutta loro avvincente drammaticità nelle pagine di questo libro. Dal diario minimalista di un sergente italiano sul fronte greco alla prima linea in mare con la vendetta dell’u-boot U-81 contro la portaerei inglese Ark Royal, artefice dell’affondamento della corazzata tedesca Bismarck, alla tragedia della corazzata Barham al largo di Sollum. Dalla battaglia di Knightsbridge in terra d’Africa, la più devastante sconfitta subita da forze corazzate britanniche in tutta la seconda guerra mondiale con 250 dei propri carri armati rimasti inchiodati sulle sabbie roventi del deserto, alle imprese disperate dei caccia della Luftwaffe nei cieli del Canale di Sicilia, alle vicende dell’aeroporto americano costruito alle falde del Vesuvio, i cui bombardieri sembrarono colpiti dalla maledizione dei frati neri dopo la distruzione del monastero di Montecassino, alla strage compiuta da aerei americani che“liberavano” una comunità meridionale. Dai tristi campi di prigionia francesi del Nord Africa, in cui si moriva più della prima linea, al famigerato Campo 305 P.O.W in Egitto in cui indossare la camicia nera comportava il rischio della pena capitale, alla pietas di una donna del popolo, in prima linea tra corpi insepolti e bombe inesplose, per dare il giusto riposo ai caduti oltre le divise, oltre le bandiere.

Orazio Ferrara - Prima Linea. Storie di guerra - IBN Editore, Roma, 2013 , 168 pp., con numerose foto, 16.50 € - IBN Editore, Via dei Marsi, 57 - 00185 Roma, Tel & Fax: 0039 06 4452275 - 0039 06 4469828 - e-mail: info@ibneditore.it

Avanti nel fiume della Tradizione...







"Andenken alla Ritter"

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"Una lettura spregiudicata della cultura fascista"



ISTRUZIONI PER UNA LETTURA SPREGIUDICATA DELLA CULTURA FASCISTA

Di Piero Vassallo

Medico illustre e umanista d'alto profilo, autore di importanti saggi sulla catechesi cattolica e, in asse con questa, su argomenti scottanti [divorzio, aborto, eutanasia, manipolazioni genetica ecc.] Luigi Gagliardi si è dedicato con successo anche a un'attività impopolare e censurata dai poteri forti quale è la revisione/demistificazione della storia del Novecento italiano, scritta dai progressisti per esorcizzare il qualunque sussulto della coscienza nazionale.
Notevoli per la ricchezza delle fonti e per l'equilibrio dei giudizi, infatti, sono alcuni suoi saggi storico-filosofici, ad esempio il profilo di Arnaldo Mussolini [scritto in collaborazione con l'autorevole pensatore Fausto Belfiori] e lo studio sulla cultura controriformista del fascismo.
A questo scabroso filone di ricerca è dedicato anche il saggio "Aspetti storici e politici del fascismo", uscito in questi giorni dai torchi animosi e instancabili dell'editore Marco Solfanelli in Chieti.
Ricco di spunti originali e di inedite citazioni, il nuovo saggio di Gagliardi disegna un profilo inedito della tentazione cattolica della cultura fascista e giustifica la motivata avversione di Mussolini e degli studiosi fascisti all'ideologia liberale.
Al proposito è citato un interessante ma (inspiegabilmente) dimenticato autore d'area, Oscar Di Giambernardino, il quale contesta la tesi di Stuart Mill, che riduce la libertà al "fare ciò che ci piace, avvenga che può" dimostrando che "le azioni individuali, mosse da criteri così scapigliati, non possono per virtù propria ordinarsi ed equilibrarsi senza interferenze, urti e sovrapposizioni, ossia senza una lotta disordinata che, se non distrugge nella pratica la proclamata libertà di gusti, di indirizzi e di carattere, obbliga codesta libertà alla conquista quotidiana di sè stessa, correndo l'alea della vittoria o della sconfitta".
Conseguenza della sovrapposizione dell'ideologia liberale alla dinamica della società organizzata secondo la legge naturale è l'impegno delle masse "alle cose in forsennata concorrenza, avendo come scopo il benessere e come mezzo di affermazione la ricchezza ... il progresso è stato concepito, in conseguenza, come una serie ritenuta inesauribile di conquiste sulla materia, bastevoli da sole a giustificare la vita umana e a dare ad essa ogni speranza e ogni ebbrezza. Così le questioni morali e religiose sono rimaste confinate in un settore quasi sperduto dell'attività umana".
Ora alla motivazione del rigetto fascista dell'ideologia liberale non è estraneo il giudizio cattolico formulato da Leone XIII, secondo il quale "la libertà, come quella che è perfezione dell'uomo, deve avere per suo oggetto il Vero e il Bene: e la natura del Vero e del Bene non è variabile a capriccio dell'uomo, ma rimane sempre la medesima e non è meno immutabile che l'essenza stessa delle cose".
La prossimità dell'idea fascista alla dottrina cattolica peraltro è testimoniata dalla definizione della libertà proposta da Guido Manacorda, un eminente studioso che fu fedele interprete del pensiero di Mussolini e implacabile critico dell'esoterismo nazista: "La libertà non è un diritto: è un dovere. Non è un'elargizione: è una conquista. Non è un'uguaglianza: è un privilegio".
Al rifiuto dell'ideologia liberale discende la critica all'assolutismo democratico. Al proposito Gagliardi cita un testo di Alfredo Roncuzzi, filosofo di estrazione cattolica e perciò dimenticato o volutamente censurato dall'insensibilità della pubblicistica ispirata da Armando Plebe e dai suoi ascari neodestri: "L'irrazionalità sistematica del suffragio universale, comunemente adottato dalle democrazie odierne, il quale dà agli inferiori, ai meno preparati, ai meno qualificati, alla massa indistinta, la potestà numerica di designare i dirigenti politici, si fonda sul concetto di un'ipotetica uguaglianza, cioè su un'astrazione".
Il testo di Roncuzzi fa affacciare alla memoria le tradizionali obiezioni della sana filosofia al concetto di sovranità popolare, oltre che la fondamentale distinzione tra popolo e massa, affermata da Pio XII nel radiomessaggio per il Natale del 1944.
Gagliardi, infine, indirizza la politologia tradizionale a porre l'accento sulla divina Provvidenza (che trascende la volontà delle masse ordinando la storia ai suoi fini).
La dottrina provvidenzialista fu dimostrata autorevolmente dal cattolico Giambattista Vico, il geniale italiano, cui i giovani avanguardisti (Niccolò Giani, Guido Pallotta e Nino Tripodi) educati alla vera fede nella scuola fondata da Arnaldo Mussolini, attribuirono il titolo di filosofo del fascismo.
La critica del democratismo, peraltro, è in linea con l'insegnamento di Benedetto XVI, il quale afferma che, ove il relativismo fosse vero "la maggioranza di un momento diventerebbe l'ultima fonte del diritto". Ai seguaci di un tale paradosso, Benedetto XVI rammenta che "la storia dimostra con grande chiarezza che le maggioranze possono sbagliare. La vera razionalità non è garantita dal consenso di un gran numero, ma solo dalla trasparenza della ragione umana alla Ragione creatrice e dall'ascolto comune di questa Fonte della nostra razionalità"
Scritto davanti al definitivo tramonto dei partiti organizzati in conformità all'equivoco concetto di destra politica, il saggio di Gagliardi aiuta a comprendere la necessità del rinnovamento nella genuina tradizione italiana e l'obbligo di comprendere che la riforma della vetusta e lisa costituzione del 1946 deve cominciare dalla critica al principio di sovranità popolare e dalla ridefinizione del concetto di libertà.

Camerata Mikis Mantakas: Presente!

28 Febbraio 1975 – In ricordo di Mikis Mantakas


Mikis Mantakas 1
 
Da giorni, nelle strade della Capitale, si combatteva per la conquista del territorio e dello spazio antistante all’ingresso del Palazzo di Giustizia, in Piazzale Clodio. Il 24 febbraio del 1975, nell’aula della prima Corte d’Assise del Tribunale Penale, si svolse il processo contro i tre militanti di Potere Operaio accusati di omicidio per la strage del Rogo di Primavalle, dove persero la vita i fratelli Stefano e Virgilio Mattei. Il processo divenne il luogo – simbolo dello scontro tra le due verità. I primi a capirlo furono i missini che si presentarono in massa. Alle nove del mattino l’aula venne chiusa al pubblico, trenta esponenti di sinistra, trenta di destra e trenta poliziotti in borghese. Fuori, invece, rimasero solo i giovani del Fuan. Alle dieci e trenta i militanti di sinistra di riorganizzarono formando un corteo e puntando dritti al Tribunale al grido di “Lollo libero”. La polizia intervenne, ma esplose la violenza. Tafferugli, molotov e auto incendiate. Due poliziotti e un missino feriti, un arresto, Stefano Salpietro diciannove anni, militante di sinistra trovato in possesso di una sbarra di ferro. Alle undici e trenta un commissario di pubblica sicurezza, Pietro Scrifana, fu stroncato da un infarto mentre era in servizio. Il secondo giorno, il 25 febbraio, i militanti di sinistra si organizzarono meglio, riuscendo, alle otto e trenta, a guadagnare per primi l’ingresso al Tribunale. I missini furono costretti ad attaccare la scalinata, ma la battaglia durò poco grazie all’intervento delle Forze dell’Ordine. La tensione salì la sera, quando i locali dell’Accademia pugilistica romana di Angelino Rossi, fu assaltata da un commando a viso coperto e muniti di bottiglie molotov. Per fortuna nessun ferito, ma il giorno dopo, l’attentato, fu rivendicato da Lotta Continua. Il terzo giorno, il 28 febbraio, la battaglia iniziò alle sei e trenta del mattino, quando i due eserciti tentarono ancora una volta di guadagnare per primi l’ingresso all’aula. Lanci di pietra, bulloni e altri oggetti, fino a quando non intervenne nuovamente la Polizia. Gli scontri proseguirono fino in via Suora della Carità e si udirono alcuni colpi di pistola. Uno sconosciuto aveva esploso tre colpi di pistola calibro sette e sessantacinque contro Morice Guido, dirigente del Fronte della Gioventù. La prima volta che si sparava per politica nelle strade della Capitale a viso scoperto e armi in pugno. I dimostranti diedero fuoco ai sacchi di rifiuti della nettezza urbana e tentarono di penetrare all’interno della sede della Rai. Intanto un altro corteo non autorizzato, formato da militanti di sinistra, partì dal quartiere di Primavalle e raggiunse in tre diverse direzioni il Palazzo di Giustizia. Un ragazzo, Vincenzo Lazzara, fu colpito da un mattone provocandogli la frattura del braccio. Un altro giovane venne ferito al ginocchio da un proiettile calibro sei e sessantacinque. Anche all’interno dell’aula si verificò una scaramuccia meno grave ma la più importante della giornata. Due ragazzi, un militante di sinistra con impermeabile chiaro e un maglione, e un militante di destra con capelli corti, arrivano ai ferri corti. I due furono fermati e identificati dagli agenti di pubblica sicurezza. Il ragazzo di destra era nato a Reggio Calabria e si chiamava Luigi D’Addio. Il ragazzo di sinistra, invece, si chiamava Alvaro Lojacono, rilasciato alle undici grazie all’intervento di un avvocato. Intanto altri missini, Umberto Croppi e Mikis Mantakas, era riusciti ad entrare in aula ma divisi dalla precipitazione degli eventi. Quando all’una l’udienza fu rinviata, i militanti missini, asserragliati nel Tribunale si organizzarono per arrivare incolumi fino all’avamposto più vicino, la sezione di via Ottaviano. Un primo drappello, tra cui Mikis Mantakas, riuscì a superare il cordone e arrivare a destinazione. Gli altri, tra cui Umberto Croppi, fu costretto ad aspettare una Fiat 128 che faceva da spola, trasferendo quattro persone alla volta. All’una e un quarto, in via Ottaviano, vi erano poco più di venticinque militanti, quando le prime molotov iniziarono a piovere sul portone del palazzo. La sezione era costituita da un piccolo labirinto di stanza e stanzette, con un profondo sottoscala, sotto il livello del suolo. Ma il palazzo aveva anche un altro ingresso, quello che dava su Piazza Risorgimento. Mentre il corridoio era già invaso dal fumo e dalle fiamme, i missini, decisero di dividersi e sfruttare l’effetto sorpresa, azzardando una disperata controffensiva per prendere alle spalle il commando. Una decina di giovani uscirono dall’ingresso della Piazza e corsero verso via Ottaviano. Ma arrivati all’angolo furono accolti da una pioggia di fuoco. Mikis Mantakas, ventitre anni, cadde a terra. Un proiettile lo aveva colpito al cranio trapassandogli la regione parietale sinistra. Perse conoscenza ma ancora vivo. Al suo fianco vi era un ragazzo, Franco Anselmi, munito di passamontagna e bagnato da un fiotto di sangue schizzato via dalla testa di Mikis Mantakas. Per anni conservò il passamontagna come una reliquia. I ragazzi della sezione raccolsero il corpo e con la forza della disperazione tornarono verso il portone posteriore. Il soprabito di Mikis Mantakas prese fuoco. Gli assediati riuscirono ad entrare nell’atrio e a barricare il portone. Fuori, gli assedianti sradicarono un palo della segnaletica stradale e lo usarono come ariete per sfondare il portone. Mentre i colpi del palo risuonavano nel cortile, i missini, decisero di chiudere il corpo di Mikis Mantakas, ancora vivo, in uno dei tre garage del cortile sorvegliato da un amico. Gli altri, invece, ripiegarono verso la sezione rifugiandosi nel sotterraneo. Sfondato il portone, il commando, non accorgendosi della saracinesca della sezione abbassata, puntarono sul garage centrale crivellandolo di pallottole. Mikis Mantakas e il suo custode si trovarono però nel garage di fianco. In quel momento una nuova pattuglia di missini, che tornava da fuori, irruppe nel cortile e gli assalitori decisero di abbandonare il campo. Nell’atrio cadde un altro missino, Fabio Rolli, colpito al fianco da una pallottola calibro sette e sessantacinque, che si trovava sulla via di fuga del commando. Arrivato a via Ottaviano, Umberto Croppi, capì che per l’amico non vi erano più speranze. Infatti, trasportato d’urgenza in ospedale, il cuore di Mikis Mantakas smise di battere dopo due ore dall’agguato. In quei momenti di confusione, un poliziotto, Luigi Di Iorio, centralinista nel vicino Commissariato di Borgo, mentre attraversava Piazza Risorgimento con la sua auto, una Fiat 850, vide materializzarsi due individui armati che si allontanavano dalla Piazza correndo con le pistole in pugno. Il primo, di media statura, alto circa un metro e settanta con un impermeabile chiaro. Il secondo, invece, più alto con i baffi e sempre con un impermeabile chiaro. L’appuntato scese dall’auto, estrasse la pistola d’ordinanza e iniziò l’inseguimento verso Borgo Pio. Uno dei due si girò e, sempre correndo, sparò due colpi. Come nei film, decisero di dividersi. Il più basso girò verso destra, l’altro, più alto, verso sinistra. L’agente Di Iorio decise di inseguire il primo quello che aveva sparato. Ma per qualche istante lo perse di vista. A quel punto fu avvertito da una persona anziana che il fuggitivo si era infilato in un portone, al numero ottantacinque di via Del Falco. Intanto una pattuglia della Polizia giunse sul posto. Entrarono nel portone e l’appuntato vide un giovane che scendeva. Indossava un paio di pantaloni blu, un maglione beige, ma niente impermeabile. Mentre gli altri agenti fermarono e perquisirono il ragazzo, Luigi Di Iorio, salì al primo piano e trovò un impermeabile di colore chiaro. Al secondo piano, invece, in un angolo, vi era una pistola Beretta calibro sette e sessantacinque, colpo in canna e un caricatore da sei colpi. Il giovane fu identificato come Fabrizio Panzieri che subito si dichiarò innocente ed estraneo ai fatti. A incastrare l’altro individuo furono le testimonianze di alcuni missini, ma non solo, che si presentarono spontaneamente dai Carabinieri. Prima Franco Medici, poi, Alessandro Rosa e infine, Fernando Maiolo. Tutti confermarono che a sparare quel pomeriggio fu Alvaro Lojacono, l’uomo che fu identificato dalla polizia alcune ore prima nell’aula del Tribunale. Mikis Mantakas nacque ad Atene il 13 luglio del 1952 ed era cresciuto in un quartiere residenziale, il Papagos. Il padre, Nikos Mantakas, era un Generale in pensione, aveva guidato le truppe partigiane durante la guerra contro il nazifascismo a Creta. La madre, Calliope, era antifascista e oppositrice attiva del regime. Mikis Mantakas, nel 1969, decise di trasferirsi in Italia. A Bologna, lo zio gestiva una clinica privata e il suo primo obiettivo era di laurearsi e lavorare con lui. Si iscrisse all’Università presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia, ma fu costretto a trasferirsi a causa di un’aggressione, per motivi politici, subita di fronte all’istituto di biologia. Ricoverato in ospedale con quaranta giorni di prognosi, decise di iscriversi all’Università La Sapienza di Roma. Nel 1970, in Grecia, una dittatura fascista aveva preso il potere e per un greco in Italia significava o essere fascista o antifascista. Mikis Mantakas si avvicinò alle idee più lontane da quelle dei suoi genitori. Frequentava il bar di via Siena, molto vicino alla facoltà, dove conobbe i ragazzi del Fuan. Una comunità affiatata e cameratesca. Conobbe anche una ragazza, Sabrina Andolina, poco più piccola di lui, molto carina, lavorava come segretaria nella Sede Nazionale di via Quattro Fontane, con il Presidente del Fronte della Gioventù, Luciano Laffranco. Mensilmente, Mikis Mantakas, riceveva dal padre un assegno di centocinquantasette mila lire che serviva per pagare l’affitto di un piccolo appartamento che divideva con altre persone, le telefonate a casa e qualche libro. Si era iscritto al Fuan solo da sei mesi. Uno dei suoi migliori amici fu Umberto Croppi, leader della corrente rautiana, il camerata che quel 28 febbraio lo accompagnò al suo appuntamento con il destino. I funerali si svolsero a Roma, nella chiesa di Piazza della Minerva, riempita da una folla che straboccava nelle vie laterali. Al termine della messa, Giorgio Almirante, Segretario del Movimento Sociale Italiano, si fermò sulla scalinata dove improvvisò un discorso a braccio di sei minuti. Come per Lollo, Clavo e Grillo, anche Fabrizio Panzieri e Alvaro Lojacono, divennero i due simboli della sinistra extraparlamentare. Si mobilitarono il Soccorso Rosso, Dario Fo e Franca Rame, gli ideologi Vittorio Foa, Aldo Natoli e Antonio Landolfi, componenti del “Comitato per la liberazione di Panzieri”. Il comitato fu presieduto dal Senatore Umberto Terracini, Presidente dell’Assemblea Costituente e firmatario della Costituzione Italiana. Il processo di primo grado contro Fabrizio Panzieri e Alvaro Lojacono, militanti di Potere Operaio, si concluse nel marzo del 1977 con la condanna a nove anni e sei mesi di reclusione per concorso morale in omicidio a Panzieri. Assoluzione, invece, per insufficienza di prove a Lojacono. Il processo di secondo grado, presieduto dal Giudice Filippo Mancuso, nel maggio del 1980, si concluse con la condanna a sedici anni di reclusione per entrambi. Ma un ricorso in Cassazione riuscì a bloccare l’esecutività della sentenza per Alvaro Lojacono e, nonostante la condanna, rimase in libertà per poi fuggire prima, in Algeria, e poi, nel Canton Ticino, in Svizzera assumendo il cognome della madre. Più tardi si fece luce sulla sua partecipazione alla lotta armata, prima e dopo la sentenza di quell’anno. Nel 1978 fu accertata la sua presenza nel commando delle Brigate Rosse che rapì Aldo Moro e uccise la sua scorta. Nel 1981, fu incriminato per il rapimento Cirillo. Nel 1982 per l’omicidio dell’assessore campano, Raffaele Delcogliano. Nel 1983, fu condannato all’ergastolo per l’omicidio del Magistrato Girolamo Tartaglione, del consigliere della Democrazia Cristiana Italo Schettini, degli agenti di pubblica sicurezza Ollanu e Mea, per l’uccisione del Colonnello dei Carabinieri, Antonio Varisco, e per l’assassinio del Maresciallo di Polizia, Mariano Romiti. La Svizzera non concesse mai l’estradizione anche se fu arrestato nel 1988 a Lugano e condannato a 17 anni di reclusione per il caso Tartaglione. Dopo nove anni, nel 1997, ottenne dal Tribunale elvetico la semilibertà per seguire un corso di giornalismo e nel 1999 divenne un uomo libero. Anche Fabrizio Panzieri, approfittando di una scarcerazione, si diede alla latitanza. Gli inquirenti accertarono la sua affiliazione alle “Unità Comuniste Combattenti”, attive tra il 1977 e il 1979 nel Lazio, Toscana e Calabria, condannato, nel 1982, a ventuno anni di reclusione. Ancora oggi risulta latitante. Non persero troppo tempo a ringraziare, una volta usciti di cella, approfittando della prima occasione per scappare, senza concedere a chi aveva creduto nella loro innocenza nemmeno il conforto di una verità illusoria. Se Fabrizio Panzieri e Alvaro Lojacono fossero stati tenuti in carcere, la loro manovalanza sarebbe stata sottratta alla confezione di numerosi omicidi.
 

Goliardata cameratesca contro Fini.

In piazza San Babila gli ex Msi brindano al "funerale" di Fini con vino del Duce

Alessandro Da Rold

Un brindisi con un Sangiovese di Predappio, paese di Benito Mussolini, per ricordare l'esclusione dal parlamento di Gianfranco Fini, l'ex presidente della Camera e leader di Futuro e Libertà, partito che a queste elezioni ha preso lo 0,4%. Gli ex missini milanesi si sono dati appuntamento mercoledì 27 febbraio in piazza San Babila a Milano, per festeggiare l'esclusione di quello che è stato il segretario nazionale del Fronte della Gioventù e del Movimento Sociale Italiano. Ma soprattutto presidente di Alleanza Nazionale per tredici anni, dalla fondazione nel 1995 fino al 2008, quando An si sciolse dentro al Popolo della Libertà di Silvio Berlusconi. Di quell'esperienza è rimasto davvero poco o niente, frammentata in Pdl, Destra, Fratelli D'Italia e appunto Fli.
I simboli sono i simboli. San Babila lo è stata per la destra milanese e per Ignazio La Russa, da poco rieletto a Montecitorio, tra gli anni '60, '70 e '80. Il vino Sangiovese è invece quello di Predappio, dove è sepolto Mussolini. Promotore dell'iniziativa "goliardica" è Roberto Jonghi Lavarini "Il Barone Nero" insieme con i fratelli Mauro e Diego Zoia. «Questo personaggio - dicono in una nota riferendosi a Fini - pur disprezzandoli per anni ha cavalcato senza crederci gli ideali che sono stati bandiera di molti italiani onesi e lavoratori. Tale esclusione è la giusta moneta con cui la Storia e la democrazia ripagano i traditori». Alla bicchierata presente anche Oscar, il noto proprietario del ristorante "Oscar il Fascista".

Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/blogs/portineria-milano/piazza-san-babila-gli-ex-msi-brindano-al-funerale-di-fini-con-vino-del-duce#ixzz2MBgtyS8G
 
 
Note dal brindisi in onore della scomparsa di Fini
Gli ex missini stappano a Milano in piazza San Babila, per celebrare l'addio del "traditore" al Parlamento
 
 
«Un infame traditore si merita di non essere rieletto. Prima o poi si raccoglie quel che si è seminato». È questo il filo conduttore del brindisi che il movimento politico la Destra, insieme a una serie di sigle estremiste, ha voluto organizzare per celebrare la “morte politica” di Gianfranco Fini che, con un misero 0,46% alla Camera (159 mila voti in tutt’Italia), è passato direttamente dal più alto scranno di Montecitorio alla più modesta sedia di casa sua (magari il cognato gli darà ospitalità a Montecarlo). L’appuntamento è per le 18.30 nella storica piazza San Babila, negli anni ’70 luogo abituale di ritrovo dei ragazzi dell’allora Fronte della Gioventù riconoscibili per i Ray-Ban a goccia affumicati, gli stivali a punta “Barrow’s” o i mocassini “College” ai piedi, le camicie a collo alto. Militanti che spesso finivano alle mani con altri giovani, con barba lunga ed eskimo, con stesso fervore politico ma idee opposte. Un lontano ricordo che lascia spazio, oggi, a signori attempati che rimpiangono i tempi che furono. Qualcuno indossa il berretto da ufficiale della Repubblica di Salò, reso celebre dal gerarca Alessandro Pavolini, qualcun altro giacche vagamente militari. Si sono ritrovati, in una ventina, per stappare insieme qualche buona bottiglia di rosso (rigorosamente marcata con l’effige di Mussolini) insieme a passanti e curiosi, in onore dell’umiliazione politica di un «traditore della propria Patria, dei propri elettori, dei propri principi e valori». Come quotidiano liberale, distante ovviamente anni luce dalle opinioni politiche dei presenti, non neghiamo il diritto di ognuno di dire la sua, senza censure. È un bene, dal nostro punto di vista, che nessuno, incluse le forze di Polizia presenti, abbiano contestato i saluti romani, gli inni al Duce e le canzoni fasciste. Umanamente, poi, capiamo la rabbia di chi, come l’ex dirigente missino Sergio Spinelli, si è sentito tradito dal suo vecchio leader. Un politico che si è sempre autodefinito, orgogliosamente, fascista che nel 2003 ha dichiarato che «il fascismo è stato il male assoluto». Uno strenuo difensore della famiglia naturale e tradizionale, fino a sfociare nell’omofobia (a una puntata del Maurizio Costanzo show del 1998 ebbe a dire «un maestro elementare dichiaratamente omosessuale non può fare il maestro»), che ha fondato un partito che si dichiara «in prima fila nella battaglia per i diritti civili delle coppie di fatto, etero e omosessuali, e ritiene che finalmente siano maturi i tempi affinché il prossimo parlamento sancisca con una legge dello Stato questi diritti a lungo attesi» (dal blog del fillino Enzo Raisi). Non c’è, in effetti, una cosa su cui Fini sia stato coerente. I neofascisti milanesi l’hanno detto nel loro roboante modo, eccessivo ma dotato, va detto, di una certa gentilezza. Quando sono passati, per caso, due ragazzi stranieri di colore li hanno accolti con un bicchiere di vino, parlando loro del patriota africano Thomas Sankara, comunista sì, ma anche nazionalista e fiero avversario delle multinazionali americane come loro. Molto meglio lui, coerente fino alla morte (avvenuta nel 1987 a seguito di un colpo di Stato), del traditore Fini. Fedele, fino a qualche giorno fa, solo alla propria poltrona.

mercoledì 27 febbraio 2013

"Fini come Badoglio"

Borghesefebbraio2013

Fini, il liquidatore

LA CRISI DELLA DESTRA

di ADALBERTO BALDONI

Non sono d’accordo con chi afferma che la destra avrebbe subito un colpo mortale da parte di Silvio Berlusconi, con la decimazione dalle liste elettorali degli ex esponenti (a livello centrale e periferico) di Alleanza nazionale. Si è parlato di una “mattanza a Palazzo Grazioli”, di una “pulizia etnica”, di una vendetta personale del Cavaliere nei confronti di chi - nel corso di questi ultimi anni-  gli ha messo i bastoni fra le ruote minacciando di volta in volta di togliere la fiducia al suo governo,  boicottando i provvedimenti da lui sollecitati sia alla Camera e che al Senato. 
La crisi della destra, quella per intenderci che aveva continuato il percorso del Msi e poi di Alleanza nazionale, inizia nel marzo 2009 quando il III ed ultimo congresso di An sancisce lo scioglimento del partito per confluire in un nuovo soggetto politico, il Popolo della libertà che raccoglie anche Forza Italia (sciolta nel novembre del 2008). Del resto la sigla del Pdl era già conosciuta, essendo stata costituita come federazione di partiti politici il 27 febbraio 2008 in vista delle imminenti elezioni politiche di aprile dove An e Forza Italia avevano fatto parte di una lista unica, che aveva raggiunto il 37,4 % dei voti e conquistato la maggioranza assoluta nel Paese.
In questo caso, Gianfranco Fini, accettando il cartello elettorale con Forza Italia, aveva evitato di farsi contare, preoccupato della fuoriuscita dal partito di elementi come Francesco Storace che aveva fondato La Destra con Teodoro Buontempo e Daniela Santachè; nonché di Nello Musumeci che aveva dato vita ad Alleanza Siciliana per entrare poi ne La Destra (nelle elezioni del 2008, supereranno il 2% dei voti) ed altri (nel Trentino Alto Adige fuoriusciti da An avevano costituito Unitalia) mentre in Toscana un consigliere regionale aveva aderito alla Lega.
  Un grave errore la fusione con Forza Italia. Sarebbe stato più saggio però, dopo il trionfo elettorale, che Alleanza nazionale avesse continuato a mantenere la propria autonomia, facendo parte della Federazione dei partiti di centrodestra. (Su 141 seggi al Senato, 47 erano di An mentre alla Camera, su 272 seggi ben 83 appartenevano a An).
Fini ed i suoi colonnelli, liquidando Alleanza nazionale, hanno forse peccato di presunzione, ritenendo che l’avrebbero fatta da padroni anche nel nuovo soggetto politico, ideato e coccolato dal Cavaliere. Fini già pregustava il momento in cui uno stanco Berlusconi lo avrebbe investito come suo successore.
Sarebbe divenuto leader di un partito che contava quasi 14 milioni di consensi (tanti i voti raccolti nelle politiche del 2008). Incredibile! D’altro canto, senza alcuno sforzo, non aveva ereditato nel 1987 da Giorgio Almirante,  il Movimento sociale italiano?
 
  I primi affondi del cofondatore del Pdl contro il governo di centrodestra. Due anni dopo, Fini incomincia a spazientirsi. Il Cavaliere non dà segni di stanchezza e non molla la leadership del Pdl. La poltrona della Camera, di cui è presidente, gli va stretta.
Il cofondatore del Pdl, sfruttando la sua posizione, accusa il governo Berlusconi di fare un abuso di decreti-legge e voto di fiducia. I giornali della sinistra danno ampio spazio alle sortite di Fini.
Il 15 aprile 2010 Fini critica il Cavaliere perché troppo influenzato dalla Lega Nord. Nella direzione nazionale del Pdl, la prima dalla sua costituzione, Berlusconi chiede a Fini di lasciare l’incarico di presidente della Camera, se ha intenzione di tornare a fare politica all’interno del partito. La risposta è una vera e propria provocazione: “ Altrimenti che fai? Mi cacci?”.
Gli amici di Fini, a questo punto, contravvenendo ad una risoluzione della direzione nazionale, costituiscono un corrente interna, denominata “Generazione Italia”, il cui obiettivo sarebbe quello di plasmare un centrodestra non conservatore, moderno, progressista e laico, avvalendosi della collaborazione di leader quali David Cameron, Nicolas Sarkozy e José Maria Aznar.
Lo strappo è consumato. Ora Fini può incominciare a lavorare per fare cadere il governo.
  La nascita di Futuro e Libertà. Il 30 luglio dello stesso anno, 33 deputati inviano una lettera di dimissioni al capogruppo del Pdl, Fabrizio Cicchitto e costituiscono un gruppo parlamentare denominato Futuro e Libertà (presidente Italo Bocchino). Il 2 agosto nasce il gruppo anche al Senato, formato da dieci parlamentari, guidato da Pasquale Viespoli. Coordinatore dei gruppi parlamentari, Silvano Moffa.
Il 29 settembre, il presidente della Camera, annuncia che Futuro e Libertà è diventato un vero e proprio partito, il cui coordinamento viene assunto da Adolfo Urso (Sarà poi un’assemblea costituente, Milano 13 febbraio 2011, presieduta da Andrea Ronchi, ad assegnare gli incarichi).
La resa dei conti di Fini con Berlusconi avviene il 14 dicembre, quando vengono votate mozioni di sfiducia verso il governo nei due rami del Parlamento. La sera precedente il primo ha radunato i suoi nella sede di Fare Futuro, spronandoli al massimo impegno: “ Nessuno deve fare un passo indietro. Ci giochiamo tutto, la nostra storia, la mia e la vostra, il percorso che abbiamo condiviso in questi mesi. Se non ci sono ripensamenti, il governo va sotto”.
La vera partita si gioca a Montecitorio, dove Fini è convinto di disarcionare dal cavallo Berlusconi e di erigersi a liberatore dell’odiato caimano, colpevole di non avergli lasciato le chiavi della casa comune, il Popolo della Libertà.
  Il fallimento dell’ imboscata al governo. Come previsto a Palazzo Madama, il Cavaliere incassa tranquillamente la fiducia della maggioranza (i futuristi, un’esigua pattuglia di 10 furbetti si astengono, in attesa degli eventi) mentre a Montecitorio riesce a prevalere solo per tre voti, evitando il trappolone teso da Fini.
All’ultimo momento alcuni come Moffa, Maria Grazia Siliquini, Catia Polidori ci ripensano e decidono di non votare contro il governo perché non intendono uscire dal centrodestra. Anche al Senato il gruppo si spacca: Viespoli e altri sei danno vita al gruppo di Coesione Nazionale.
La manovra dell ‘ “Altrimenti che fai? Mi cacci?”, è miseramente fallita. Inizia l’inesorabile declino di un leader e dei suoi seguaci, litigiosi, isterici, settari, in permanente confusione ideologica, chi attratto dalla sinistra anche estrema chi dai conservatori più retrivi. Alle prime elezioni  del maggio 2011, a cui partecipano con la nuova sigla, si attestano sull’1 per cento.
 E’ stato detto che Fini ha prima liquidato il Msi con il pretesto di porre fine alla stagione del postfascismo, dando vita ad Alleanza nazionale. Quindi ha regalato An a Silvio Berlusconi nella speranza di riprendersela con gli interessi. Quando si è accorto che le sue ambizioni smodate non approdavano ad alcun risultato positivo, ha tentato persino di affondare il Pdl.
  Fini come Badoglio. Alleanza nazionale, era un grande partito che, da Fiuggi in poi aveva ottenuto la fiducia degli italiani, testimoniata dai consensi elettorali. Era un partito che oscillava attorno al 12-15 % dei voti. Un dato significativo. Alle elezioni della Camera nell’aprile 1996, An aveva ottenuto 5.870.491 voti, pari al 15,66 %. Percentuale che, anche negli anni seguenti, non si è mai discostata da queste cifre (Esempi recenti. Alle elezioni europee del 2004, An arriva al 14,6% mentre a quelle politiche  dell’aprile 2006, alla Camera conquista 4.707.126 voti, con una percentuale del 12,34 %).
Ebbene Fini non soltanto é stato capace di sperperare questo enorme patrimonio di consensi elettorali, ma pure di sgretolare una comunità umana che tutti ci invidiavano, legata al territorio e alle tradizioni popolari, con una sua spiccata identità, portatrice di ideali e di valori spirituali, depositaria di una memoria storica ineguagliabile.
Alla conferenza programmatica di Verona tenuta a Verona nel 1998, battezzata la “Fiuggi 2”, con la solita aria dottorale, circa l’identità e la memoria storica, Fini disse che “Alleanza nazionale ha un’anima che è costituita anche dalla memoria perché non si devono fare confusioni: il passato deve passare ed è passato, ma la memoria no. La memoria accompagna un individuo dal primo all’ultimo alito di vita. Quando un popolo cancella la sua memoria rischia di perdersi o di rivivere  i suoi momenti più bui...  E proprio alla memoria fanno riferimento coloro che chiedono di non dimenticare”.
Parole, come hanno dimostrato i fatti, che erano dettate dal momento, per fare presa sull’assemblea, per strappare applausi, per fare presa sui sentimenti dei militanti.
La “memoria storica”, infatti, è stata più volte calpestata, anzi rigettata, disconosciuta.
Fini è capace, infatti, nell’arco di una giornata di sostenere nella mattinata una tesi e nella serata di sciorinarne un’altra diversa, con estrema disinvoltura.
Ai funerali di Pino Rauti, centinaia di persone, appena hanno intravisto Fini avviarsi  verso la Chiesa, hanno iniziato ad inveire contro di lui, scandendo: “Badoglio, Badoglio, Badoglio”. Il maresciallo Pietro Badoglio, simbolo del tradimento, dell’8 settembre, della resa ai nemici della Patria.
Chissà se in quell’istante, Fini avrà ricordato i tumultuosi momenti del congresso missino di Rimini nel gennaio 1990, quando cambiò la geografia interna al partito e prevalse la linea nazional popolare di Rauti, uno dei suoi storici avversari interni. La sorprendente vittoria di quest’ultimo, fu favorita dal “tradimento” di Franco Maria Servello, Adriana Poli Bortone, e Raffaele Valensise che, con le loro componenti, gli voltarono le spalle all’ultimo momento. Ebbene mentre Servello parlava, Fini aizzò i suoi che accompagnarono le parole dell’oratore con quell’ingiurioso “Badoglio, Badoglio, Badoglio”…
Come può sentirsi un personaggio come Gianfranco Fini nelle vesti di Pietro Badoglio?

 

 

"Guardare avanti e ripartire adesso!

 
 
di Alessandro Nardone – In quarantott’ore è stato detto e scritto tutto ed il contrario di tutto, ma ritengo doveroso esprimere il mio personale punto di vista, non foss’altro perché in questa campagna elettorale mi sono esposto in prima persona, tentando di dare il mio modestissimo contributo a valori, quelli di destra che, nonostante tutto, continuo a ritenere attualissimi nonché altamente rappresentativi di una grossa fetta della nostra società.
Per questo, anche e soprattutto oggi, alla luce di un risultato certamente negativo, ritengo doveroso riconoscere a Francesco Storace il grande merito di aver tentato in tutti i modi e con tutto se stesso di tenere viva e unita una comunità che ha pagato a carissimo prezzo le scelte scellerate di Gianfranco Fini e dei suoi colonnelli. Ma non è certo questo il momento per recriminare o, peggio ancora, per piangerci addosso. Al contrario, dobbiamo avere la forza e la capacità di raccogliere ed interpretare il messaggio che il Popolo italiano ci ha voluto trasmettere attraverso il suo voto, che è assolutamente inequivocabile: cambiamento.
La gente è irrimediabilmente stufa della classe dirigente che ha governato negli ultimi vent’anni, non ne puo’ più tanto di Berlusconi quanto di Bersani e ritiene superati i vecchi contenitori post-ideologici.
Certo, molti di voi obietteranno osservando che ero candidato con La Destra all’interno della coalizione di centrodestra. Ovvio, per me sarebbe stato molto più agevole e meno dispendioso non espormi, rimanere “fermo un giro”, ma rivendico con fermezza la mia scelta in quanto credo che si possa risultare credibili soltanto nel momento in cui si ha il coraggio di mettersi in gioco in prima persona, a viso aperto. Altrimenti sono solo chiacchiere.
Oltretutto, questa campagna elettorale è stata l’occasione grazie alla quale ho trovato, sul mio cammino, persone straordinarie, tutte animate dalla volontà di dare il loro contributo alla costruzione di un futuro limpido e radioso per la nostra amata Italia. Sarebbe da matti disperdere un patrimonio simile.
Già, ma nel concreto, in che modo possiamo pensare di ripartire? Un’idea ce l’ho, ma ci arriverò dopo, prima voglio fare un’analisi sintetica di quanto accaduto.
L’EPILOGO DI FINI E LA DISGREGAZIONE DELLA DESTRA
Andrò controcorrente, ma non riesco proprio a gioire per la disfatta dell’ex capo di An. Piuttosto sono deluso ed incazzato, per quello che sarebbe potuto essere e non è stato. Insieme alla destra italiana ha distrutto anche se stesso e, anche se non lo ammetterà mai in pubblico, scommetto che in cuor suo stia rimpiangendo amaramente di essersi inviso alla comunità che credeva in lui. Quanto a Fratelli d’Italia, con tutto il rispetto per le amiche e gli amici che ci hanno creduto, ho sempre ritenuto che si trattasse di un progetto venuto alla luce su presupposti sbagliati, ovvero non per la salvaguardia dei valori della destra ma, piuttosto, di una classe dirigente che aveva capito di non avere più spazio altrove. Una scialuppa di salvataggio, insomma. La dimostrazione di quanto affermo sta nei primi posti delle liste, tutti ad esclusivo appannaggio dei soliti noti, che si sono ostinati a tenere in seconda linea tanto dirigenti capaci e con esperienza quanto i giovani che, negli anni, si erano affermati sul territorio. Infine La Destra, partito per il quale Francesco Storace ha dato l’anima e che, certamente, ha raccolto meno di quanto non meritasse. I motivi? Per come la vedo io sono essenzialmente due: il primo è certamente la scelta – obbligata – di allearsi a Berlusconi che, grazie alla sua indiscussa potenza di fuoco mediatica, ha letteralmente cannibalizzato argomenti e consensi degli alleati, Lega compresa. La seconda è che, come dicevo all’inizio, probabilmente anche il solo fatto di chiamarsi Destra ha fatto sì che il nostro partito venisse classificato dagli elettori come parte integrante del vecchio sistema, nonostante i contenuti e le battaglie che ha portato avanti non lo fossero affatto. Anzi.
BERSANI E BERLUSCONI, DUE FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA
Se Atene piange, Sparta non ride. Infatti, se il vero sconfitto di questa tornata è certamente Pierluigi Bersani – che tutti accreditavano come sicuro vincitore – il dato certo è che nessuno dei due poli abbia i consensi necessari per ambire a rappresentare la maggioranza degli italiani. Nei fatti, a contendersi il governo del Paese, sono state due minoranze. Questo è un altro sintomo chiarissimo del netto rifiuto, da una parte e dall’altra, nei confronti di una classe dirigente che ha dimostrato di non volersi rinnovare. La questione è assolutamente trasversale e generazionale. Non a caso, infatti, andai a votare per Matteo Renzi alle primarie del Partito Democratico, affermando che una sua vittoria su Bersani avrebbe messo in moto una vera e propria rottamazione a catena, perché avrebbe rinnovato il centrosinistra e, al tempo stesso, costretto il centrodestra ad adeguarsi, obbligandolo a rinunciare all’ennesima “ridiscesa in campo” di Silvio Berlusconi.
IL FENOMENO GRILLO, PROTESTA OBBLIGATA
Nel 1993 a catalizzare i favori degli italiani ed il cosiddetto voto di protesta nei confronti di un sistema marcio e corrotto oltre al Pm Antonio Di Pietro c’erano partiti come il Msi, la Lega Nord e, successivamente, Forza Italia. A distanza di vent’anni, quegli stessi protagonisti vengono, a loro volta, identificati come parte di un sistema in molti casi corrotto e, certamente, non in grado di mantenere le promesse fatte agl’italiani. Una sorta di nemesi. In un contesto siffatto, l’unico soggetto che si è posto, in modo chiaro e netto, in antitesi a quel sistema, ha raccolto i consensi di un italiano su quattro, diventando il primo partito. Ora, personalmente rimango convinto che dal punto di vista politico e dei contenuti si tratti di un soggetto assolutamente inadeguato ed in questo, anche se ho molti motivi per dubitarne, per il bene del mio Paese, spero di essere smentito dai fatti. Quello di Grillo, però, è un successo che sarebbe stupido sottovalutare, considerandolo episodico, perché non è nient’altro che la conseguenza dei fatti che ho citato in precedenza. Un sistema autoreferenziale e partitocratico che, a destra come a sinistra, si ostina a non volersi rinnovare e riformare; una classe dirigente che, dalla legge elettorale al finanziamento pubblico dei partiti, per arrivare alla riduzione del numero dei parlamentari, non ha fatto altro che inscenare il solito tristissimo teatrino, manifestandosi come la massima rappresentazione di quella casta che, giustamente, la gente non vede l’ora di levarsi dalle scatole. Certo, sarebbe ingiusto e demagogico non osservare che in entrambi gli schieramenti sono presenti persone oneste, animate da buona volontà e sani principi, ma va altresì constatato che, se vogliono davvero cambiare le cose, devono trovare la forza ed il coraggio di staccarsi dai rispettivi apparati di partito, anziché chinare continuamente il capo adeguandosi a scelte che non condividono.
LO SCENARIO ATTUALE, NESSUNA LINEA ALL’ORIZZONTE
Inutile dire che, l’attuale composizione del Parlamento, non lasci presagire nulla di buono. Tanto per cominciare si perderanno mesi importantissimi soltanto per espletare le lunghe ed estenuanti liturgie di palazzo: l’insediamento, le consultazioni, l’incarico ad un presidente del consiglio, i voti di fiducia. Dopo di che, visto che al Senato la maggioranza non c’è, comincerà un’agonia totalmente improduttiva e, spallata dopo spallata, il governo cadrà. Allora comincerà il solito spettacolo di reciproche accuse, e ci racconteranno che non ci sono le condizioni per fare nemmeno una delle riforme che servono al Paese. Nel frattempo, piccolo particolare, questo ennesimo Parlamento di nominati, dovrà a sua volta nominare il nuovo inquilino del Quirinale. Una prospettiva che, per come si sono messe le cose, risulta quantomeno inquietante.
Fatta questa fotografia, più o meno obiettiva, della situazione che si è venuta a creare, posso riprendere il filo del discorso da dove lo avevo lasciato, ovvero da dove possiamo e dobbiamo ripartire.
A mio modesto avviso, come avrete intuito, credo sia indispensabile smaltire il prima possibile le tossine della campagna elettorale e raccogliere l’appello lanciato qualche mese fa da Marcello Veneziani – a cui diede immediatamente seguito Francesco Storace – per la costruzione di quella che io, a questo punto, definirei una destra – non destra. Ovvero una destra nei valori e nei principi, ma non più destra nella forma, nel contenitore.
Sì, lo so, vi sembrerà folle, ma oggi più che mai sono convinto che dobbiamo avere l’ambizione di costruire un soggetto nel quale, oltre a noi, possano riconoscersi milioni d’italiane e d’italiani, anziché l’ennesima riserva indiana.
Per farlo servono dosi massicce di follia, passione e coraggio, oltre che un pizzico di fortuna.
Io ci credo e, sono sicuro, insieme a me molti di voi non vedono l’ora di cominciare, così come sono sicuro che lo siano tanto Francesco Storace, quanto Marcello Veneziani. Non ci rimane che da fare il primo passo e poi, tutto il resto verrà da se.
Ora più che mai è il momento di unirci e di guardare avanti… Avanti, Italia!