Sergio Romano/ Solo una rivoluzione salverà l’Europa
Articolo di Marco Valle
Per uno strano gioco del destino l’Unione di Bruxelles si sta inabissando proprio nei luoghi — la Grecia e il suo prolungamento cipriota — in cui tre millenni fa nacque l’Europa. Schiacciato da egoismi, corruzione, avidità e disperazione sociale il fragile colosso burocratico affonda nel mare d’Afrodite e Ulisse. Un triste naufragio che evidenzia drammaticamente i limiti di una costruzione senz’anima e cuore, un edificio pieno di crepe e angoli bui. Un progetto sbagliato. Il bilancio dell’ambizioso disegno continentale, basato sul trattato redatto lo scorso secolo a Maastricht — per il vecchio Cossiga nulla di più di «un documento di contabili scritto negli uffici studi delle Banche centrali» —, è assolutamente negativo. In un decennio di “non governo” europeo ovunque la disoccupazione è aumentata, la crescita economica è interrotta, il tenore di vita è diminuito, lo Stato sociale è lacerato. E ancora, la legittimazione degli Stati, a cominciare dall’Italia, è messa in discussione senza che s’intraveda l’alba di una nuova sovranità europea. Sulla scena mondiale, l’Unione europea non esiste. Di fronte alle guerre afghane e libiche e alla deriva siriana l’inconsistenza dell’Europa come soggetto autonomo ha trovato, una volta di più, plastica conferma.
Un disastro pieno. Ma per l’ambasciatore Sergio Romano — uno dei più lucidi e “potenti” analisti italiani — questa è solo la punta dell’iceberg. L’ennesima conferma di un tumore profondo e devastante. Da qui il suo nuovo saggio “Morire di Democrazia”, una sintesi densa quanto sintetica di un lucida e dolente indagine sulle fragilità del patrio Stivale (pensiamo a lavori come “Finis Italiae”, “Lo scambio ineguale” e “Italie parallele”) e di tante riflessioni, tutte importanti, sul destino ultimo della nostra civilizzazione euro-atlantica. Come Prezzolini, il diplomatico vicentino non nutre illusioni: l’attuale crisi, profonda quanto ignobile, delle istituzioni comunitarie è solo l’ennesimo, drammatico annuncio di un declino più profondo e di una svolta epocale. Non a caso riecheggiano tra le pagine di Romano riferimenti continui a quel tramonto dell’Occidente intravisto Spengler già un secolo fa. Linee di vetta precise e tragiche che l’ambasciatore — uomo di grande cultura e di vaste letture — interpreta e rielabora con abilità e duro disincanto. Tralasciando le giuste — ma, oggi, sin troppe facili — critiche all’Unione Europea, Romano supera la cronaca e fissa la causa del male nel fallimento storico del sistema politico occidentale. “Morire di democrazia” — un titolo che non sarebbe dispiaciuto ai magnifici polemisti dell’Action Française — è un atto d’accusa durissimo verso le classi dirigenti europee, d’ogni partito e passaporto, sempre più inette e incapaci di fronte al grande mutamento previsto dal vecchio Oswald in “Der Intergang des Abendlandes”. Ma non solo. Accanto e sopra la vuotezza culturale e la corruzione diffusa di un personale politico a cui «una targa e busto non bastano più per ricompensare una carriera pubblica», avanza un fenomeno devastante portatore di nuove (poche) ricchezze e (molte) nuove povertà. Nell’evaporarsi delle sovranità nazionali, l’ambasciatore intravede l’avvento del mercato finanziario globale, privo di regole comuni, che trasforma il nostro quotidiano in «una gigantesca casa da gioco dove gli algoritmi dei software permettono di comprare e vendere lo stesso prodotto nel giro di pochi secondi, dove il denaro è attratto da impieghi speculativi e sottratto all’economia reale. Il croupier di questa casa da gioco è il nuovo banchiere, quello che Spengler aveva definito “il terzo”, colui che s’inserisce tra i produttori e consumatori e usa entrambi per scopi che non hanno nulla da vedere con le loro rispettive esigenze».
È il tempo dei “ signori del denaro”, una “nuova classe”— riprendendo una categoria cara a Milovan Gilas — senza onore e passaporto, composta da persone «che non hanno alcuna altra cittadinanza fuor che quella del “mercato” e reagiscono con insofferenza e dispetto a ogni tentativo pubblico di regolamentare il loro mestiere». Un potere anonimo che si beffa della politica e dei politici e che si serve di un potere giudiziario invasivo quanto ottuso e spesso vile. Alla magistratura italiana — una casta di privilegiati arroganti ma, vedi il caso ILVA, incapaci di visioni alte e giuste — e internazionale, come la patetica corte dell’Aia — forte con gli sconfitti, tremula di fronte ai potenti —, l’autore riserva uno sbeffeggio elegante e crudele. Interessanti anche le note sulla Rete, le sue ambiguità e minacce. Colpisce, scorrendo il capitolo dedicato alla galassia d’Internet, la freschezza e la limpidità di pensiero di Romano: un uomo anziano ma terribilmente curioso e vigile sul nuovo. In poche, dense righe l’ambasciatore disvela i finti miti che sostengono gli alfieri dei social network — completa gratuità, trasparenza, partecipazione — e ci mette in guardia verso i nuovi demagoghi che impazzano sulla Rete e i loro referenti remoti ma potenti. Pagine da leggere e rileggere. Con attenzione. Nessuna speranza, dunque? Per Romano l’unico orizzonte possibile è ancora l’Europa. Un’Europa altra, radicalmente lontana e diversa dalla moribonda Unione. Nella visione dell’autore solo uno Stato federale, guidato da un Presidente eletto con un sistema in stile francese, può affrontare le sfide odierne. Una rottura rivoluzionaria di stampo neo gaullista podromica ad una svolta geopolitica ancor più netta e decisiva: la proclamazione di una neutralità di tipo svizzero e la conseguente rottura dello “scambio ineguale” che da più di mezzo secolo lega il continente agli Stati Uniti. In sintesi, la fine della NATO e lo scioglimento dei trattati post’45. Un’eresia. Una magnifica eresia per molti, ma nulla d’inatteso per chi da anni segue Sergio Romano e le sue riflessioni. Un ricordo personale: in “Morire di Democrazia” ritroviamo le argomentazioni su cui negli anni Ottanta il Fronte della Gioventù — un piccolo laboratorio d’idee e sogni, un’isola d’intelligenza confusa ma organizzata — tentò di costruire un progetto alternativo all’atlantismo e al pacifismo filo sovietico. In quegli anni le letture del diplomatico veneto — assieme agli spunti ripresi da De Benoist, Romualdi, Thiriart, Ilari, Alvi… — accompagnarono le nostre riflessioni, più o meno centrate, e la nostra critica, magari ingenua, ai dogmi allora dominanti. Errori di gioventù? No. Con il suo ultimo, prezioso lavoro Romano, con Aristotele e Isocrate, ci riporta alla “politeia” intesa come vita e principio vitale della città e ci ricorda la necessità di “grande politica” e di disegni alti, ambiziosi. Prima che mercanti, maghi e demagoghi spalanchino le porte della polis ai barbari.
MORIRE DI DEMOCRAZIA
ppgg. 108 – euro 12, 90
Longanesi, Milano. 2013
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