giovedì 3 gennaio 2013
La verità sulla cosidetta "crisi economica".
La verità sulla cosidetta "crisi economica".
(Emilio Giuliana, Trento, novembre 2012)
Nell'Italia settentrionale i primi ad avere una vera banca furono i genovesi con la Banca di Genova, fondata per sconti, depositi e conti correnti da alcuni commercianti. Questo avvenne soltanto nel 1844. Carlo Bombrini fu il Direttore Generale della Banca di Genova. Tre anni dopo la fondazione della banca di Genova, sullo stesso modello con gli stessi fini, si costituì la Banca di Torino, che nel 1849 si fuse con la Banca di Genova, originando la Banca degli Stati Sardi (ma di proprietà privata), diretta anche in questo caso da Carlo Bombrini (1845 al 1849), il quale infine fu Governatore della Banca Nazionale del Regno d’Italia dal 1861. Cavour, che aveva interessi personali in quella banca, impose al parlamento savoiardo di affidare a tale istituzione compiti di tesoreria dello Stato. Si ebbe, quindi, una banca privata che emetteva e gestiva denaro dello Stato.
A quei tempi l'emissione di carta moneta era fatta solo dal Piemonte, mentre al contrario l'antichissimo Banco delle Due Sicilie emetteva monete d'oro e d'argento, e in più, per velocizzare la circolazione monetaria, fedi di credito e polizze notate, le quali corrispondevano ad altrettanta quantità d'oro depositato nel Banco (la quantità di denaro circolante nel Regno delle Due Sicilie assommava a circa 443 milioni di lire dell'epoca). Un sistema che, per alcune norme, possiamo certamente paragonare alle carte di credito di oggi. La carta moneta del Piemonte si basava anch'essa su una riserva d'oro (il circolante nel regno sardo assommava a circa 20 milioni di lire), ma il rapporto era di 3 a 1, in altre parole tre lire di carta valevano una lira d'oro e questo significava la quasi inesistenza di capitali utili per finanziare imprese e commerci. Tuttavia, per le continue guerre che i savoiardi facevano, anche quel simulacro di convertibilità in oro non era mai rispettato, sicché ancor prima del 1861 la carta moneta piemontese non rappresentava nemmeno più il suo valore nominale a causa dell'emissione incontrollata che se ne fece.
In Piemonte il sistema sociale ed economico era ben povera cosa. Vi erano solo alcune Casse di risparmio e le istituzioni più attive erano i Monti di Pietà. Insomma esistevano solo delle piccole banche e banchieri privati, generalmente d'origine straniera, che assicuravano il cambio delle monete al ridotto mercato piemontese. In Lombardia non c'era alcuna banca d'emissione e le attività commerciali riuscivano ad andare avanti solo perché operava la banca austriaca. Tutto questo già da solo dovrebbe rendere evidente che prima dell'invasione delle Due Sicilie, nell'Italia settentrionale non vi potevano essere vere industrie, né vi poteva essere un grande commercio, come afferma la storiografia ufficiale. Valga ad esempio il fatto che le locomotive della prima linea ferroviaria del Piemonte furono acquistate nelle Due Sicilie dalle officine di Pietrarsa a Napoli.
Con il "risorgimento" furono inventate e diffuse grandi menzogne sullo Stato delle Due Sicilie, classiche quelle di Gladstone, e nascosti gli avvenimenti più brutali della guerra d'annessione. Ogni cosa che riguardava le Due Sicilie fu demonizzata o messa in ridicolo, infamando col nome di «brigantaggio» anche la lunga guerra di resistenza fatta spontaneamente da tutto il popolo duosiciliano contro l'invasione piemontese.
La diffusione di queste menzogne, ideate dalla massoneria attraverso i "Congressi degli scienziati", servì anche a coprire le reali intenzioni dell'Inghilterra e della Francia che volevano modificare l'assetto politico europeo a loro vantaggio. Gli esponenti al governo di queste due nazioni appartenevano alla ricca borghesia, protagonista della rivoluzione industriale inglese e della rivoluzione francese, e tendevano a moltiplicare i loro affari e traffici con l'ingrandire la loro influenza politica nel Mediterraneo, dove avevano i loro passaggi obbligati.
Avvenuta la conquista di tutta la penisola, la prima cosa che i piemontesi fecero fu quella di impossessarsi di tutte le riserve di denaro nelle banche degli Stati appena conquistati. La Banca Nazionale degli Stati Sardi (privata) divenne, dopo qualche tempo, la Banca d'Italia (sempre privata), così com'è ancora oggi. La Banca d'Italia è, infatti, allo stato attuale, di proprietà dell'ICCRI, Banca San Paolo - IMI, Banco di Sardegna, Banca Nazionale del Lavoro, Monte dei Paschi di Siena, Mediobanca, Banca di Roma, Unicredito.
A seguito dell'occupazione piemontese fu immediatamente impedito al Banco delle Due Sicilie (diviso poi in Banco di Napoli e Banco di Sicilia) di rastrellare dal mercato le proprie monete d'oro per trasformarle in carta moneta secondo le leggi piemontesi, poiché in tal modo i Banchi avrebbero potuto emettere carta moneta per un valore di 1200 milioni e sarebbero potuti diventare padroni di tutto il mercato finanziario italiano. Quell'oro, invece, attraverso apposite manovre piano piano passò nelle casse piemontesi. Eppure, nonostante tutto quell'oro rastrellato al Sud, la nuova Banca d'Italia (sempre di proprietà privata), risultò non avere parte di quell'oro nella sua riserva. Evidentemente quest'oro aveva preso altre vie. Esso, infatti, fu utilizzato per la costituzione di imprese al nord tramite il finanziamento operato da banche, subito costituite per l'occasione, che allora erano socie della Banca d'Italia: Credito mobiliare di Torino, Banco sconto e sete di Torino, Cassa generale di Genova e Cassa di sconto di Torino.
Le sottrazioni operate e l'emissione non controllata della carta moneta ebbero come conseguenza che ne fu decretata già dal 1863 il corso forzoso, in altre parole la lira carta non poté più essere cambiata in oro. Oltre ai conseguenti danni per il risparmio di tutte le popolazioni della penisola, da qui incominciò a nascere il «Debito Pubblico»: lo Stato, in pratica, per finanziarsi iniziò a chiedere carta moneta ad una banca privata (qual è la Banca d'Italia). Lo Stato, quindi, a causa del «genio» di Cavour e soci, cedette da allora la sua sovranità in campo monetario affidandola a dei privati, che non ne hanno alcun titolo (la sovranità per sua natura non è cedibile perché è del popolo e dello Stato che lo rappresenta).
Solo con la conquista delle Due Sicilie, dunque, con il denaro sottrattogli e con il sacrificio di questo fu possibile impostare "dopo" un programma di riforme che permisero la nascita delle industrie e delle infrastrutture nel Nord dell'Italia. Ovviamente, per permettere lo sviluppo delle loro nascenti industrie, il Piemonte eliminò non solo la concorrenza delle industrie duosiciliane, ma coprì negli anni successivi con prodotti delle nuove aziende piemontesi e lombarde tutto il mercato interno in una situazione di monopolio. Per ottenere questo, gli occupanti attuarono nei territori conquistati varie azioni, che in sostanza furono quelle di decretare nuove misure doganali nelle Due Sicilie, particolarmente gravi per le industrie siderurgiche e meccaniche. Poi sottrassero al Sud tutte le commesse militari e ferroviarie e impoverirono i capitali duosiciliani con un maggior drenaggio fiscale, utilizzando le risorse così ricavate esclusivamente nell'area lombardo-piemontese. Numerosissime ricchezze, inoltre, furono rapinate per uso personale dagli invasori, che distrussero volutamente numerosi opifici, come ad esempio a Mongiana ed a Pietrarsa.
Nei primi decenni del Novecento, l’Italia – un’Italia assai più povera di quella odierna –visse un momento critico molto simile alla crisi finanziaria globale attuale, ma la affrontò con soluzioni diverse, persino opposte a quelle imposte oggi dall’ideologia liberista americana. Il problema italiano fondamentale era allora costituito dal finanziamento delle imprese, pratica che doveva fare i conti con capitali nazionali piuttosto esigui. Già ai tempi di Giovanni Giolitti (1842-1928), alcuni economisti si opposero all’ideologia del “tutto privato”, avendo compreso come fosse necessario promuovere e raccogliere il piccolo risparmio – tutelandolo dalla “predazione” bancaria – nonché organizzarlo e dirigerlo allo sviluppo. La principale fonte di finanziamento per le grandi imprese era rappresentata dalle banche. Banche private come la Banca Commerciale Italiana (BCI o ‘Comit’), nata con i capitali esteri di Otto Joel (1856-1916), banchiere italiano di origine tedesca, e da Federico Weil (1854-1919), allo scopo di profittare della nascente espansione industriale italiana. Un’espansione che gli industriali privati italiani non vollero o non riuscirono a finanziare con capitali propri. Quattro grandi banche private – Comit, Credito Italiano (Credit), Banco di Roma, Banca Italiana di Sconto (BIS) – finirono per assumere il dominio del capitalismo italiano. Tali istituti utilizzavano i depositi dei piccoli risparmiatori per finanziare gli investimenti industriali, immobilizzandoli a lungo termine; in cambio essi chiedevano, quale garanzia, pacchetti azionari delle aziende, sì da acquisirne il controllo: azioniste dei grandi gruppi, le banche disponevano dei soldi dei depositari ignari. Quasi Goldman Sachs “alla italiana”, si potrebbe riassumere. I grandi industriali finanziati dalle banche menzionate, nel frattempo divenute loro socie, non si concentrarono sulla produzione, bensì utilizzarono i capitali per scalare le banche medesime, allo scopo di prenderne il controllo e avere così accesso al denaro dei risparmiatori. Nel 1918 i fratelli Perrone, padroni della società Ansaldo, rastrellarono un grosso pacco di azioni Comit, mentre Giovanni Agnelli (1866-1945), il nonno capostipite, scalò il Credito Italiano nel 1920. I banchieri reagirono alle scalate cercando dapprima accordi con gli scalatori, ma consegnando in seguito miliardi di lire a “gruppi amici” affinché acquistassero pacchetti delle loro azioni onde mantenerne il controllo. Anziché concedere credito e fidi a chi ne abbisognava, cioè alle piccole e medie imprese dell’economia, le banche sprecarono i risparmi dei loro clienti in questa guerra fratricida. Nel dicembre del 1921, la corsa ai rastrellamenti e agli anti-rastrellamenti azionari dei pacchetti di controllo mediante i soldi dei piccoli risparmiatori portò alla bancarotta la Banca Italiana di Sconto. Il disastro economico avvenne sotto i governi liberisti di Ivanoe Bonomi (1873-1951) e di Luigi Facta (1861-1930). Fedele all’ideologia liberista, il governo Bonomi non volle salvare la BIS, non ritenendo valesse la pena utilizzare denaro pubblico per una società privata. Allo stesso modo, pochi anni fa la Federal Reserve e il Tesoro degli Stati Uniti rifiutarono di salvare la Lehman Brothers – cosa che permise tra l’altro di eliminare un concorrente della Goldman Sachs – dovendo poi stanziare 780 miliardi di dollari pubblici per cercare di salvare invano l’intero sistema. Nel caso italiano del 1921, il crollo della BIS minacciò di far cadere l’economia nazionale globale, tanto che il Banco di Roma si trovò sull’orlo della bancarotta. Nel 1922 il governo fascista, appena insediatosi, decise di intervenire: su indicazione del Duce, il 20 dicembre il Ministro del Tesoro Alberto de Stefani (1879-1969) salvò il Banco, legato a capitali del Vaticano. Il salvataggio riuscì perché venne concessa la facoltà di impegnare il Tesoro, e rientrò nella politica generale di risanamento finanziario, accompagnato dal rafforzamento della lira, voluto dal nuovo governo. Strangolate dalla lira forte, Comit e Credito Italiano si trovarono in una difficile situazione per via dei loro soldi immobilizzati in azioni e partecipazioni incrociate, scopo delle quali era unicamente mantenere il controllo delle banche stesse in mano ai soliti, pochi noti. Nel settembre del 1931, Giuseppe L. Toeplitz (1866-1938), padrone del Comit, dovette presentarsi davanti a Mussolini con un progetto di salvataggio della sua banca e del Credit. L’idea di Toeplitz era simile a quella imposta oggi dalle banche USA al governo americano: lo Stato avrebbe dovuto fornire i soldi pubblici per ricapitalizzare, mentre Credit avrebbe conferito a garanzia una quota di azioni delle aziende da esso controllate, ma – si badi – non azioni scelte dallo Stato, bensì quelle di aziende deboli. La proposta di Toeplitz venne rispedita al mittente da parte di Alberto Beneduce, al fianco di Mussolini come fiduciario dell’economia. Alberto Beneduce (1877-1944), suocero di Enrico Cuccia (1907-2000), era tutt’altro che fascista, essendo egli socialista e massone. Conosceva però il mondo dell’economia ed era competente, al contrario dei banchieri; suo intento era risolvere il problema endemico del capitalismo privato “alla italiana”, mediante l’organizzazione del piccolo risparmio privato e la direzione di questo allo sviluppo. Beneduce inventò – novità assoluta – le obbligazioni industriali garantite dallo Stato: i risparmiatori avrebbero potuto contribuire al finanziamento dell’industria elettrica, telefonica, cantieristica e delle grandi opere pubbliche con l’assicurazione di non perdere tutto, giacché il rischio era coperto dallo Stato. Nel gennaio del 1933, un regio decreto creò l’Istituto di Ricostruzione Industriale (IRI), con Beneduce alla presidenza e direttore generale Donato Menichella (1896-1984, ex-Bankitalia). Il 13 aprile 1934, le tre grandi banche trasferirono all’IRI l’intero loro patrimonio di partecipazioni industriali. L’IRI si trovò così a detenere il controllo del 94% di Comit e del Banco di Roma, nonché del 78% di Credito Italiano[1]. In cambio dello sgravio dell’immane massa di crediti irrealizzabili – i titoli tossici di allora – i banchieri privati dovettero impegnarsi per iscritto a fare «investimenti di pronta liquidità, escluso ogni immobilizzo di carattere industriale, anche sotto forma di partecipazioni azionarie». Questa la disposizione della legge Glass-Steagal, finalizzata alla separazione del credito ordinario da quello della banca d’affari. I grandi privati si dimostrarono pronti a riprendersi le aziende “irizzate” risanate dalla gestione Beneduce-Menichella.
Nel 1945, persa la guerra, gli Americani richiesero l’abolizione dell’IRI e la sua privatizzazione, nell’intento di comprare le banche con i depositi trovati nelle banche stesse. La depredazione fu tuttavia rimandata a tempi migliori e a migliori “padri della patria”: Carlo A. Ciampi (1920-), Romano Prodi (1939-) e Mario Draghi (1947-). Ad ogni modo, i “liberatori” pretesero una ricompensa assai elevata: ai neocolonialisti vincitori della Seconda Guerra Mondiale si dovettero “donare” concessioni unilaterali assecondate da taluni illustri italiani, che ne ebbero in cambio personalissimi privilegi. Fu il capolavoro di Mario Berlinguer (1891-1969), grande capitalista e proprietario terriero, il quale, spalleggiato da Alcide Degasperi (1881-1954), accolse di buon grado gli aiuti post-bellici offerti per il tramite del finanziere francese e massone 33° grado Jean Monnet (1888-1979) – proprio colui che affermò: «L’Europa ha bisogno di crisi e di gravi crisi per fare passi avanti (...) le nazioni dell’Europa dovrebbero essere guidate verso il super Stato senza che i popoli sappiano cosa sta accadendo». Costui era un “tecnico” dell’epoca, al quale un consorzio di Banche USA che si accaparrò i fondi del Piano Marshall (costituito da soldi dei contribuenti e correntisti americani, non dei banchieri) e che era capeggiato dai Lazard, affidò il compito di distribuire gli “aiuti” a condizione che i Paesi europei beneficiari rinunciassero a porzioni della sovranità territoriale e monetaria.
Oggi, rispetto al passato, ma a causa degli effetti del piano Marshall sommati all’inadeguata capacità dei politici e tecnici che governano il Paese, la situazione si è irreversibilmente deteriorata. Se da un lato i biscazzieri di Stato, Lusi, Fiorito, Lombardo, Daccò, Polverini, Penati e altri sprecano o intascano milioni euro, i tecnici li superano di gran lunga, dilapidando miliardi euro. Ha fatto un certo effetto la notizia del 18 ottobre 2012, secondo la quale Moody’s ha declassato i titoli di Monte dei Paschi a “spazzatura”. Il che è naturale, essendo la Montepaschi fallita per la gestione dei suoi caporioni, tutti comunisti di ferro oggi PD. Nel 2007, essi fecero acquistare a Montepaschi una banchetta del Nord-Est, l’Antonveneta, per 9 miliardi di euro – mentre questa ne valeva al massimo 2 – suscitando così i peggiori sospetti, fra i quali quello di costituzione di fondi neri. Pochi mesi prima, il governo Monti aveva usato 3.9 miliardi di euro dei cittadini per regalare al Tesoro i titoli della Montepaschi stessa! Il valore della banca ammonta oggi a 2.96 miliardi. Un pessimo affare per il Tesoro, cioè per i contribuenti italiani. Ad aiuti di Stato di tal genere non sembrano contrari i liberisti bocconiani e l’Unione Europea, quanto meno se si tratta di fare favori ai comunisti, da Bersani in poi. Esiste, inoltre, una commovente solidarietà fra i banchieri: il colpevole del fallimento, Giuseppe Mussari (1962-), ex-PCI e amministratore delegato della Montepaschi all’epoca del crollo, è oggi presidente dell’ABI, la confindustria delle banche, mentre dovrebbe come minimo essere agli arresti. Non è estraneo agli eventi anche un altro protagonista della scena bancaria: Alessandro Profumo (1957-). Nella vicenda risultano persone informate sui fatti Vittorio Grilli (1957-), attuale Ministro dell’Economia e al tempo direttore generale del Tesoro, e Anna Maria Tarantola (1945), allora dirigente di Bankitalia e nel 2012 messa da Monti a dirigere la RAI. Sembra quasi che i tecnici andati al governo stiano spendendo soldi degli Italiani per coprire le magagne e i danni causati da altri tecnici o da loro stessi, a riprova della loro sesquipedale incompetenza. Nel marzo scorso, i tecnici fecero in gran segreto uso del Tesoro per chiudere un contratto-derivati, pagato 2.56 miliardi di euro, con la banca d’affari Morgan Stanley. Poiché la notizia è balzata agli altari della cronaca dagli Stati Uniti all’Italia, il governo ha tentato di giustificare la transazione con una risposta vaga. Secondo la versione più accreditata, nel 1994 il Tesoro avrebbe acquistato uno swap (un ‘derivato’) dalla banca d’affari americana in modo da garantirsi contro i rialzi dei tassi d’interesse da pagare sui titoli pubblici dei cittadini. A quell’epoca, i tempi di Ciampi e Lamberto Dini (1931-), i tassi stavano calando, cosicché a guadagnarci era Morgan Stanley e a perderci gli Italiani. Quando i tassi iniziarono a salire, Morgan Stanley, che cominciò a perdere, ruppe il contratto appellandosi ad una clausola di termination. Ora, nessun contratto ragionevole può includere una clausola del genere: chi lo ha firmato a nome dell’Italia si è fatto raggirare come un ragazzino dai banksters americani. Il direttore del Tesoro che appose la sua firma sul contratto fu colui che viene oggi osannato come il più eccelso dei tecnici, un economista di primo rango: Mario Draghi, passato in seguito a Goldman Sachs e ora a capo della BCE. Il caporione in Italia di Morgan Stanley è invece Domenico Siniscalco (1954-), ex-direttore generale del Tesoro. Gli esperti parlerebbero di conflitto di interessi. Nella farsa dei commedianti italiani, si può affermare che costoro facciano due parti in una commedia: eseguono prima uno swap da altissimi funzionari dello Stato, poi si fanno pagare come membri di Goldman Sachs o come Morgan Stanley. Un figlio di Mario Monti, bocconiano, è stato vicepresidente di Morgan Stanley. Pura coincidenza? Da quando Monti e i tecnici hanno preso il timone dello Stato, il debito pubblico non è diminuito, bensì aumentato di 70 miliardi, nonostante la torchia fiscale intollerabile, le austerità e i tagli che hanno portato alla recessione (PIL -3%). Ma – questo conta per i media! – lo spread è calato sotto i 500 punti. Di questi 70 miliardi, l’Italia ne deve conferire 27, come quota di partecipazione, al Fondo Salva-Stati (EFSF – Salva-banche?) e al Meccanismo Europeo di Stabilità (MES). Il tutto da sommare ai 90 miliardi annui che lo Stato paga in interessi sul debito pubblico. Per disporre di quei 27 miliardi, l’Italia deve chiederli in prestito, tanto da indebitarsi sempre di più per riempire dei Fondi che, in caso di crisi, la “aiuteranno” con capitali a prestito. In pratica, i nostri stessi soldi ci verranno restituiti, ma come debito aggiuntivo, sul quale dovremo ovviamente pagare gli interessi. Ecco la logica eurocratica, l’ideologia dei tecnici, che è poi la politica dei banchieri: indebitarci sempre più. Una pratica che si traduce costantemente in trasferimenti dal basso verso l’alto, dai cittadini contribuenti alle banche nazionali ed internazionali. Dei 90 miliardi che vengono annualmente estorti ai cittadini per pagare i soli interessi sul debito – nemmeno estinto di un solo euro – ben poco torna ai risparmiatori, i quali non detengono ormai che il 14% dei titoli pubblici, mentre il resto è posseduto da banche estere (il 32%) e nazionali, opportunamente rappresentate nel governo tecnico. Ciò implica che i soldi non tornano nelle mani dei privati che potrebbero investirli nell’economia reale locale, bensì nelle mani di banchieri che li usano per le loro speculazioni.
Anche la questione del Fiscal Compact, la regola imposta dalla Germania e dall’eurocrazia di ridurre il nostro debito dal 120 al 60% del PIL, entusiasticamente accettata dai tecnici, risulta parte integrante della costituzione dai partiti-servi italici, organici al sistema: essi verranno “legalmente” autorizzati a tagliare 45 miliardi l’anno per vent’anni – vale a dire a tassare e a ridurre i servizi per i cittadini. Questo si traduce in strangolamento e dissanguamento dell’economia italiana, demolizione di qualunque possibilità di ripresa. I tecnici, che spendono e promettono di spendere decine di miliardi di euro per volta, fanno apparire quasi “bambineschi” gli sprechi delle caste e dei deputati più pagati del mondo, quali Fiorito, Polverini, Lombardo, Penati.
In conclusione, per comprendere ciò che finanziariamente e socialmente sta attraversando l’Italia sarebbe sufficiente meditare su una citazione del giornalista e produttore televisivo Ettore Bernabei (1921-) pubblicata nella sua autobiografia dal titolo Un uomo di fiducia: «Lo statista trentino [Alcide Degasperi] sottoscrisse uno scellerato accordo con Raffaele Mattioli, il più potente banchiere della storia italiana [e zio di Mario Monti]. Accordo che assegnava il potere politico alla DC, il potere culturale e quello finanziario alla massoneria».
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