martedì 20 novembre 2012
Le radici sacre della monetazione ellenica.
Alle origini della metallurgia ellenica troviamo una profonda solidarietà fra l’arte tecnico-magica dei fabbri e l’arcaica sovranità sacra. Questa profonda simbiosi emerge con chiarezza anche nel processo di trasformazione della monetazione greca quale è possibile registrare già a partire dall’età omerica. Secondo gli studi di Edouard Will che sviluppava in senso etico le pionieristiche analisi di Bernhard Laum più attente alla dimensione religiosa che sostanziava l’antica ricchezza, gli importanti spostamenti di artigiani che è possibile delineare a partire dal II millennio nel bacino del Mediterraneo orientale coincidono in Grecia con la trasformazione delle antichissime forme di monetazione e con l’istituzione della moneta quale valore pratico e materiale garantito dalla città-stato.
Nel periodo di passaggio dalla civiltà micenea al mondo ellenico “classico”, le pōleis sempre più laicizzate e democratiche riescono finalmente ad impadronirsi delle miniere ricche di metallo prezioso, prima esclusivo possesso della casate nobiliari e dei sovrani. La conseguenza inevitabile sarà prima di tutto la sparizione delle corporazioni sacre dei minatori che nel loro lavoro ritenevano di incarnare o di “rappresentare” esseri semi-divini come i Ciclopi, poi l’abolizione del privilegio del conio e della lavorazione della moneta goduto dalle consorterie dei fabbri-maghi che avevano ereditato questo diritto da tempi immemorabili, infine la sostituzione della “moneta di sacrificio” o della “moneta di sangue” ancora legata alle attività rituali e ai sacrifici delle grandi famiglie aristocratiche, con una moneta uguale per tutti: la dikē cittadina sostituisce definitivamente la dikē divina.
Il vecchio conio era centrato su lingotti punzonati forgiati da artigiani-fabbri legati con un sistema di intreccio sociale e religioso ai clan aristocratici. I lingotti venivano prodotti secondo prospettive simboliche alle quali quel mondo di fabbri-maghi da sempre era rimasto saldamente legato, quasi sicuramente trasmettendo gelosamente i segreti dell’arte fra membri della stessa famiglia. Il sigillo, che in Grecia si trova usato fin da tempi molto remoti, non era un semplice segno di proprietà, ma anticipava la moneta e la permeava di una particolare “qualità”, delineava una sua dimensione spirituale, trasmetteva una identità magico-religiosa. Nei più antichi lingotti di rame minerale fin qui rinvenuti si sono trovati incisi pesci (simboli di una dèa Afrodite sconosciuta alle “classiche” forme omeriche della dèa dell’amore), oppure il tridente, l’ascia bipenne o ancora un glifo che sembrerebbe riprodurre la lettera M. E già dal tempo di Omero è documentato l’uso di donare all’ospite tripodi, bacili, calderoni, anelli e armi, tutti doni ben classificati e numerati. Si tratta di “segni pre-monetari”, veicoli di un simbolismo religioso che il signore elargiva al suo ospite. Le stesse falci di ferro date come premio agli atleti spartani che partecipavano agli agoni sacri costituivano non una bizzarra forma di riconoscimento rozzo e semplificatore del valore dei vincitori, ma una vera e propria moneta coerente con l’uso ellenico che spesso imponeva l’emissione delle monete in occasione dell’apertura dei giochi. Appoggiandosi a Pausania Louis Gernet spiegava che lo scambio del dono si svolgeva all’interno di un orizzonte religioso che lo assimilava ad una prova sacra: concludeva una forma di ordalia e annunciava un destino che veniva rivelato attraverso la “lettura” del significato delle diverse posizioni assunte su un tavolo dagli oggetti donati.
Come si vede, l’antica monetazione si basava su un sistema di scambio basato su un complesso di simboli che veicolavano forme di sacralità molto remote, poco legate ai culti cittadini e più in relazione con l’arcaico sottofondo misteriosofico dell’Ellade, con i rituali patrizi e con le consorterie di fabbri-maghi che ne sostenevano l’azione sacra. Con la riforma di tutto il complesso che ruotava attorno all’estrazione del metallo, del conio e della stessa funzione della ricchezza, il sistema monetario deve abbandonare il significato religioso che in antico gli era proprio assieme a tutto il simbolismo che lo sostanziava quando era legato al ghenos e alle dimensioni spirituali custodite dalle antiche famiglie.
Come ben vide l’Aristotele della Politica, dopo l’età arcaica a poco a poco la produzione della moneta non è più l’esclusivo privilegio delle corporazioni dei fabbri-maghi, si laicizza e diventa un semplice mezzo di scambio. Il nomisma, che serve a regolare su un piano egualitario rapporti meramente mercantili e commerciali, rinuncia definitivamente ad ogni volontà di veicolare simboli spirituali. Per dirla con Leslie Kurke che ha studiato con attenzione le implicazioni sociali di queste fondamentali trasformazioni monetarie, emerge un tipo di realtà che gli aristocratici del tempo arcaico esemplificavano nell’opposizione hétaira-porné (= cortigiana-prostituta) con la quale intendevano mostrare il vero significato delle differenze insanabili esistenti fra il metallo e la moneta. Per gli aristocratici la moneta che dopo la riforma democratica viene utilizzata da chiunque è come la porné che si dà a tutti coloro che la chiedono, al contrario della cortigiana che occupa un esclusivo, irrinunciabile e ben preciso rango in ogni corte aristocratica.
Una traccia della profonda solidarietà fra arte dei fabbri, monetazione e Themis, la Giustizia cosmica e divina, probabilmente è stata conservata fuggevolmente anche da Omero. Descrivendo lo scudo di Achille creato dal divino fabbro Hefestos, dopo averci dato una mappa celeste centrata sul polo nord, sulle costellazioni polari e su una serie di stelle fisse sulle quali, come in Esiodo, si orientava il più antico sistema calendariale ellenico, Omero tratteggia la scena di un matrimonio con la tipica processione al lume di fiaccole mentre tutt’intorno giovinetti danzanti accompagnano gli sposi elevando inni sacri. Poi, improvvisamente, la rappresentazione si trasforma e l’aedo introduce la scena di un processo. I giudici siedono su un sacro recinto circolare mentre al centro si trovano δύο χρυσοῖο τάλαντα, normalmente reso come “due talenti d’oro”. Ora, τάλαντα è formato sullo stesso radicale dal quale si ottiene il verbo ταλαντέυω, “pesare”, “bilanciare”, “misurare”, “oscillare”, sicché in realtà il termine usato da Omero indica non solo “i due talenti d’oro”, ma anche “i due piatti di una bilancia”, lo strumento forgiato dai fabbri ad imitazione del tipico simbolo di Themis, l’Ordine cosmico che si regge sull’asse polare e “orienta” la rotazione dei due “piatti d’oro” della bilancia celeste, il Grande e il Piccolo Carro. Per poter giudicare gli sfidanti di questo processo che viene condotto come un’ordalia sacra, il giudice omerico “pesa” le colpe su una bilancia e premia l’innocente con due “talenti d’oro”, qui rivelatisi come simboli ambivalenti scaturiti dalle forme più antiche di monetazione creata nella fucina dei fabbri-maghi. Con la sua “pesatura” della colpa su una bilancia e con il “premio” dei talenti d’oro il gesto del giudice omerico mostra chiaramente lo strettissimo legame esistente fra metallurgia, giustizia e sovranità, i tre volti di una regalità magico-sacerdotale precedente la stessa costituzione delle pōleis democratiche. Tutto ciò appartiene ad un sostrato culturale antichissimo, forse persino indoeuropeo. È lo stesso sostrato che illumina il gesto che, seguendo una arcaica prerogativa regale, spinse il re celta Brenno, vincitore dei Romani, a buttare la sua spada sul piatto della bilancia che doveva “pesare” il suo diritto di vincitore.
Come ricordava Johan Huizinga la scena omerica, pur in una presentazione ormai quasi completamente “laicizzata”, scaturisce dal fondamento sacro che sostanziava l’antico pre-diritto, quando colpa e diritto venivano soppesati sui piatti di una bilancia le cui oscillazioni dovevano essere interpretate da un oracolo che così decideva il destino delle due parti. L’oracolo si pronunciava su un contenzioso condotto come una sacra ordalia e il suo giudizio non era una semplice punizione, ma sanzionava un destino. È lo stesso schema rituale conservato nel gioco della scacchiera che Omero ricorda ancora nell’Odissea, dove la πεσσεία (un termine che sostanzia anche la πεσσευτήριον,“la tavola astronomica” di cui parla Eust. 1397) era una specie di tavola/scacchiera forse formata da tre quadrati concentrici, il cui significato rituale era ben conosciuto anche da Platone e sulla quale venivano gettati i dadi/pedine per interrogare il volere degli dèi. Come ha dimostrato la nota e attenta esegesi di Werner Jaeger, pur non essendo legato da vincoli etimologici il cui intreccio avrebbe potuto spiegare il significato dei due termini, secondo molti grammatici antichi il termine δίκη sul piano strettamente simbolico restava connesso al verbo δικεῖν (“gettare”): la “gettata” dei dadi determinava non solo un destino, ma fondava un diritto sacro interpretato e custodito dal veggente-indovino.
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