lunedì 26 novembre 2012
"La libertà di pensiero e la censura mondialista" intervento di Valerio Zonetti.
La paura del pensiero
pubblicata da Valerio Zinetti il giorno Lunedì 26 novembre 2012 alle ore 12.09 •
Ritorna l’inquisizione mondialista
Come negli anni ’90 (l’epoca dei primi “governi tecnici” nominati per avviare il processo di svendita della sovranità nazionale) si riparte con la repressione giudiziaria contro le fonti di pensiero libero non allineato all’ideologia mondialista funzionale all’instaurazione del dominio dell’Alta Finanza sui Popoli. Se a farne le spese allora furono formazioni politiche di grande potenzialità rivoluzionaria come il Fronte Nazionale di Franco Freda e il Movimento Politico Occidentale di Maurizio Boccacci, oggi tocca ai semplici utenti del forum Stormfront, un sito che si dichiarava (l’uso dell’imperfetto è dovuto al fatto che ora la sezione italiana è stata oscurata) in difesa della Razza Bianca e dell’Identità Europea. Quattro cittadini italiani sono stati arrestati e sono tutt’ora detenuti in custodia cautelare ed altri diciassette sono stati perquisiti. Un’ingiustizia che merita di essere denunciata, in quanto accompagnata da ombre giuridiche e menzogne politiche . E’ un dovere di ogni uomo libero, a prescindere dalla simpatia o antipatia che si possono provare nei confronti dei soggetti in questione.
Il mostro giuridico dei reati d’opinione
Già due anni fa, sulle pagine del quotidiano Rinascita scrissi un articolo (Legge Mancino: un codice liberticida) nel quale denunciavo come questa norma (che aveva appena colpito in sequenza: i sindaci leghisti di Verona e Treviso Flavio Tosi e Giancarlo Gentilini e poi una ventina di persone a seguito di un presunto festeggiamento del compleanno di Adolf Hitler in provincia di Varese) fosse totalmente incompatibile con il principio costituzionale della libertà di espressione sancito dall’art. 21 della Costituzione (riprenderò in seguito l’analisi sul punto).
La critica giuridica che può essere fatta alla normativa in questione riguarda tre profili: l’incompatibilità con l’articolo 21 della Costituzione, un’ incongruenza con il principio di tipicità ed una scarsa precisione nella definizione della fattispecie di reato.
Il momento per sviluppare il dibattito sarebbe propizio: il caso del direttore del Giornale Alessandro Sallusti condannato a quattordici mesi di reclusione per diffamazione sembrava avere aperto un varco, dato lo sdegno suscitato da una simile condanna. . I politicanti nostrani hanno inizialmente presentato un disegno di legge che avrebbe abolito la detenzione per i giornalisti (ora ripristinata a seguito di un emendamento votato a scrutinio segreto) ma che nel contempo ha allargato la gamma di fattispecie di diffamazione. Se malauguratamente questo disegno di legge dovesse essere approvato, potrebbe essere considerato diffamatorio anche asserire che l’attuale Presidente del Consiglio Mario Monti altro non sia che l’emissario dei poteri finanziari che vogliono l’impoverimento dell’Italia e la sua deindustrializzazione. Insomma, tempi duri si prospettano per il giornalismo non allineato.
Ma tornando all’analisi della Legge Mancino (Legge 205/1993, Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa) , è aberrante che questa norma sopravviva in un paese che all’articolo 21 della propria legge fondamentale sancisce: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo”. Un principio costituzionale (quindi non derogabile da una legge ordinaria) che trova rafforzamento in analoghe dichiarazioni normative di varie convenzioni internazionali richiamate dalla stessa Costituzione. Ora, dato che alla base delle accuse fatte agli utenti di Stormfront vi è proprio la legge Mancino, è assurdo che un cittadino possa essere perseguito dalla giustizia per delle mere manifestazioni d’opinione su internet, e addirittura che per questo fatto possa essere considerato pericoloso al punto da disporre la custodia cautelare in carcere (quindi la privazione della libertà personale senza ancora un regolare processo). Il secondo punto di critica alla normativa riguarda la sua totale estraneità dal principio di offensività, ormai accettato da tutta la dottrina e la giurisprudenza (anche costituzionale come vedremo). Infatti, in base al principio di offensività “non vi può essere reato senza offesa ad un bene giuridico, cioè ad una situazione di fatto o giuridica, carica di valore, modificabile e quindi offendibile per effetto di un comportamento dell’uomo” (Marinucci – Dolcini, “Manuale di Diritto Penale”).La Corte Costituzionale ha accettato questo orientamento stabilendo inoltre che “ il principio di offensività opera su due piani: sotto forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere in astratto fattispecie che esprimano in astratto un reale contenuto lesivo e dell’applicazione giurisprudenziale (offensività in concreto) quale criterio interpretativo – applicativo affidato al giudice” Questo principio è stato riferito soprattutto ai reati d’opinione, che la filosofia del diritto chiama psicoreati (come ad esempio i reati che hanno alla base l’apologia, l’istigazione, l’incitamento). In tali casi, in base appunto al principio di offensività, non possono essere punite delle mere dichiarazioni di apologia o di incitamento, ma dovrà essere verificato che esse siano accompagnate da concreti elementi e circostanze che possono trasformare un pensiero in fatto concreto. Difficile pensare che l’accertamento di tali requisiti possa essere garantito in una fase come quella delle indagini preliminari.
Il terzo e ultimo profilo della mia analisi verte fa leva sulla vaghezza della fattispecie incriminatrice: non vi è una definizione giuridica di “razzismo”. E ciò spiega come sia così troppo elastico il campo di applicazione. In Italia infatti l’aggettivo “razzista” è stato affibbiato a numerosi personaggi: persino Berlusconi quando disse che con Pisapia Milano sarebbe diventata una città islamica venne denunciato da un cittadino di origine siriane Riad Khawatmi proprio per incitazione all’odio razziale. Falvio Tosi, il sindaco leghista di Verona, venne condannato a seguito di una denuncia per avere promosso una petizione dal titolo “"Firma anche tu per mandare via gli zingari dalla nostra città". Risultato: condanna di due mesi di reclusione con sospensione della pena. E pensare che quella petizione fu firmata anche da diversi cittadini: mi chiedo se a questo punto i fimatari debbano temere che qualche Pubblico Ministero (magari uno di quelli che invece si è adoperato al fine di eludere le normative contro l’immigrazione clandestina facendo entrare nel territorio nazionale la peggiore delinquenza nordafricana) processi anche loro per avere dato la loro approvazione. Da questa brevissima casistica si può dedurre che la mancanza di una definizione legislativa chiara e univoca apra le strade a ricatti giudiziari contro chiunque non sposi una certa ideologia immigrazionista o magari (come nel caso dei cittadini veronese) sia solamente preoccupato dell’impatto negativo sulla sicurezza sociale che le comunità zingare hanno causato nelle città italiane.
Allora la domanda che sorge spontanea è la seguente: cosa succederebbe se un giudice ordinario dovesse sollevare la questione di costituzionalità? Ipotesi che non si è ancora verificata in concreto, ma alla quale la dottrina è riuscita ad elaborare una risposta. Premettendo l’inquadramento sistematico della Legge Mancino nell’ambito della Dodicesima disposizione transitoria e della Legge Scelba (divieto di ricostituzione del disciolto partito fascista) la Corte Costituzionali in passato (negli anni ’50, quindi ancora prima dell’emanazione della l.205/1993) stabilì che "il legislatore [...] dichiarando espressamente di voler impedire la riorganizzazione del disciolto partito fascista, ha inteso vietare e punire non già una qualunque manifestazione del pensiero, tutelata dall'art. 21 della Costituzione, bensì quelle manifestazioni usuali del disciolto partito che [...] possono determinare il pericolo che si è voluto evitare. [...] Il legislatore ha compreso che la riorganizzazione del partito fascista può anche essere stimolata da manifestazioni pubbliche capaci di impressionare le folle; ed ha voluto colpire le manifestazioni stesse, precisamente in quanto idonee a costituire il pericolo di tale ricostituzione." (C. Cost. sent. n. 1 del 1957 e n. 74 del 1958). Quindi si possono intraprendere due possibili tesi. La prima: solo con l’abolizione della dodicesima disposizione e della legge Scelba sarà possibile parlare successivamente di abrogazione della legge Mancino, dato che la ratio legis delle norme in questione ritiene il “razzismo” (dove con questo termine sono ricomprese anche le semplici critiche politiche all’immigrazione terzomondista ed alla società multirazziale) come manifestazione necessariamente collegata ad una riedizione del disciolto partito fascista o di organizzazioni aventi comunque i medesimi caratteri. La seconda tesi potrebbe invece fare leva sui fortissimi mutamenti storici e politici che si sono verificati in questi decenni : non vi sarebbe più il pericolo concreto di una rifondazione del PNF con tanto di squadracce armate di manganello ed olio di ricino e le critiche all’immigrazione ed alla società multirazziale sono ormai ampiamente diffuse nell’opinione pubblica ed anche nello schieramento politico, ben oltre i nostalgici del Ventennio o presunti aspiranti golpisti. Seguendo tale ragionamento – dato anche il fatto che il divieto di ricostituzione del PNF non implica il divieto all’esistenza di formazioni politiche che alle idee fasciste si ispirino – risulterebbe grottesco perseguire parte dell’opinione pubblica. E quanto meno la normativa verrebbe notevolmente ammorbidita. Seguendo questi due orientamenti, un’eventuale questione di costituzionalità potrebbe essere vagliata dalla Corte senza alcuna pregiudiziale. Ma le resistenze ai tentivi di abrogazione sono state davvero imbattibili. A questo punto, vale la pena cercare di individuare la ratio legis di questa norma. Ma qui usciamo da un terreno di analisi strettamente giuridica per lasciare spazio a considerazioni di tipo politico.
I mandanti politici
Ho sempre sostenuto che la legge Mancino fosse stata il frutto di pressioni di ambienti politici che avevano interesse nel reprimere formazioni politiche identitarie. A confermare ciò fu lo stesso Nicola Mancino, allora ministro dell’interno che oggi è indagato per la trattiva Stato – mafia (la cui esistenza è stata accertata in una sentenza della Cassazione di Firenze). Aldilà delle responsabilità penali che saranno poi accertate nel processo, Nicola Mancino ha enormi responsabilità politiche per quelle strane revoche del 41-bis fatte allora ai boss della mafia con decreto firmato da Conso e da Scalfaro. Ma questa è un’altra storia, che però è sempre utile per inquadrare politicamente il personaggio.
Il Pubblico Ministero più zelante nell’applicazione della legge Mancino fu il veronese Guido Papalia. Il quotidiano "La Padania" il 5 Marzo 1999 pubblicò un articolo dal titolo "Papalia, l'instancabile persecutore". Riporto integralmente un estratto: “Dopo avere parlato delle deliranti motivazioni su un pericolo costituito da una sovversione dell'ordinamento democratico da parte degli skinheads di destra radicale, il giornalista Guido Colombo scrisse: "Che dietro al varo di questa legge ci fosse ben altro lo confermò lo stesso Mancino quando disse di essere stato "sollecitato" a varare una legge che non voleva. Chi poteva essere tanto potente da forzare la volontà di un Ministro dell'Interno? Lo chiese allo stesso Mancino un sacerdote, Don Curzio Nitoglia della rivista "Soldalitium" di Verrua Savoia. Nella sua lettera il sacerdote religioso chiedeva se questi solleciti venivano per caso da ambienti giudaico-massonici. Con sua sopresa Mancino rispose "Trovo coerenti col mio pensiero le sue opinioni".
Chi tocca certi fili muore
Solo con un governo come quello attuale possono partorire simili inchieste giudiziarie. Un governo che nonostante la crisi economica ha aperto le frontiere all’immigrazione terzomondista. Una scelta utile per due motivi. Il primo è quello di assecondare le richieste del capitalismo schiavista dei vari Marchionne che in nome della “competitività” desiderano manodopera sottopagata. Il secondo è quello di continuare nella distruzione dell’identità etno-culturale dei popoli europei, perseguendo la creazione dell’ uomo economico (privo di qualunque dimensione spirituale e di riferimento superiore) perfettamente funzionale al dominio della finanza apolide. La distruzione delle identità priverà i popoli del loro elemento di unità e impedirà qualunque possibilità di ribellione al Sistema. Chi si azzarda a denunciare ciò, rischia di venire prelevato dalla propria abitazione alle quattro del mattino. Quando arriveremo al divieto di leggere libri e all’imposizione di leggere solo i giornali permessi dal governo come in Fahreneheit 451? In Italia, nei tribunali, piuttosto che la frase (ormai solo retorica) sulla legge uguale per tutti, sarebbe più onesto scrivere una frase di Stalin “Puoi esprimere il tuo pensiero, basta che sia uguale al mio”. Sarebbero almeno più sinceri invece di continuare a parlare di libertà e democrazia. VALERIO ZINETTI
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