mercoledì 7 novembre 2012
Il popolo della destra rende l'estremo saluto a Pino Rauti.
http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&list=UUC1hEod-DqLNkwa5Ri9ciug&v=ry2vCNz3acw
Il silenzio generale che ha accolto Fini nella sua (vana) ricerca di solidarietà dopo le contestazioni che si e' andato a beccare alla cerimonia d'addio a Rauti, e' eloquente. Quasi ad essere in presenza, invece, del funerale politico del presidente della Camera.
Fini dovrebbe aver finalmente compreso che cosa vuol dire aver ferito una comunità intera, chi lo ha seguito per decenni con l'amore che si porta al capo e poi ne rimane terribilmente deluso. Mi ha colpito un commento di Adriano Tilgher dopo quello che era accaduto alle esequie di Rauti: "Io non lo avrei fischiato anche perché Fini non l'ho mai amato. Mentre quello e' stato lo sfogo dettato dal risentimento di chi lo ha amato fino alla follia e si e' sentito nel tempo tradito". Parole assolutamente vere.
E talmente vere che siamo al punto che mentre Fini si pavoneggia nel ruolo di terza carica dello Stato, non si e' vista, per tutta la giornata di lunedì, una sola dichiarazione di solidarietà al presidente della Camera. Né che lo si sia fatto sapere. Quirinale, palazzo Madama, i partiti, nemmeno la sinistra, non una parola di vicinanza. Solo, come merita chi ha distrutto i sogni di tante generazioni.
Tanto più che nelle reazioni di Fini di cui si e' appresa notizia, egli ha rivendicato la propria diversità rispetto "a quella gente" che aveva sfidato presentandosi in chiesa, senza nemmeno la buona creanza di avvisare la famiglia Rauti. Tanto, il lavoro sporco se lo sarebbe dovuto caricare la monumentale scorta che ha al seguito. Peccato che della sua diversità ce ne siamo dovuti accorgere trent'anni dopo. Ha una specie di mania ossessiva contro il proprio passato. E' destrofobo.
Qualche bello spirito ha chiesto: "E che sarebbe accaduto se fosse venuto Bersani?". Assolutamente nulla, come non accadde nulla con l'omaggio di Almirante a Berlinguer e all'arrivo di Giancarlo Pajetta a via della Scrofa alla camera ardente del leader del MSI. Gli avversari si rispettano. E' il tradimento che non si perdona. FRANCESCO STORACE
Schiacciato dalla folla su una balaustra all'ingresso della chiesa di San Marco a Roma, ho visto sfilare tutta la destra italiana, quella nostalgica, quella moderata e quella radicale, ai funerali di Pino Rauti. È stato un documentario dal vivo di un mondo ferito e non suoni strano quel «vivo» riferito a un funerale.
Da qualche anno le manifestazioni più vive e riuscite della destra sono i funerali. Non c'è solo l'antica familiarità del mondo missino con i riti nostalgici per i caduti, con l'estetica mortuaria. C'è la percezione comune di un mondo che volge alla fine. Quella ferita ha ripreso a sanguinare alla vista di Fini, contestato con feroce durezza: voglio pensare che Fini non abbia voluto - almeno stavolta - disertare e rendere onore a un leader, pur sapendo di andare incontro al pubblico vituperio. Non era il momento e il luogo per contestare Fini, ma va compresa la rabbia e la delusione di quel mondo ferito e ipersensibile ai tradimenti.
Ma lasciamo i Fini che passano e tentiamo un bilancio del rautismo. Rauti tentò la folle impresa di far politica a colpi di idee e visioni del mondo. Trasferì la nostalgia del piccolo mondo missino dalla Repubblica Sociale al Sacro Romano Impero, immettendo il fascismo nel più maestoso fiume della Tradizione, con la T maiuscola. Sognò l'Europa in pieno nazionalismo missino, lanciò il comunitarismo in pieno cameratismo, scoprì l'ecologia in piena ideologia e istigò alla lettura giovani militanti, sottraendoli al puro attivismo e alla retorica patriottarda. A lui si avvicinò l'ala colta giovanile che non si accontentava dei saluti romani e del tricolore, leggeva Evola e lo preferiva a Gentile, faceva i campi hobbit e riteneva il liberal-capitalismo il nemico principale. Rauti esortò a leggere e pensare un ambiente versato nell'azione, nell'etica della sconfitta e nell'estetica del risentimento. «Veniamo da lontano» fu il suo motto. Aveva la lungimiranza ideale dei grandi miopi e la scarsa dimestichezza pratica. Le sue lenti spesse lo resero un alieno per la destra militante. Rauti perse la sua aura di ayatollah intellettuale quando perse le diottrie, dopo un'operazione agli occhi. È come se si fosse secolarizzato, spogliandosi delle sue lenti.
Rauti cercò in un primo tempo di trasferire il pensiero impolitico di Julius Evola nella militanza politica del Msi e poi di Ordine nuovo e poi ancora del Msi, in cui rientrò. Subì il carcere per il suo radicalismo ideologico, coinvolto nella strage di Milano; ma ne uscì indenne, eletto a pieni voti in Parlamento nelle elezioni del '72. Poi, alla morte di Evola ma sul filo della sue opere più trasgressive - come Cavalcare la tigre - Rauti intraprese, lui di destra tradizionale e radicale, un percorso inedito che lo portò a vagheggiare «lo sfondamento a sinistra» e l'alleanza rivoluzionaria. L'impresa si condensò soprattutto in una vivace rivista quindicinale, Linea, da cui siamo passati in tanti, ed ebbe un ruolo decisivo nella nascita della cosiddetta Nuova Destra. Era una linea di forte suggestione che apriva nuovi scenari, pur occhieggiando al fascismo sociale e rivoluzionario. E liberava la destra militante dalla sindrome dell'assedio, del ghetto e della guerra civile permanente con la sinistra. Ma la linea rautiana non ebbe interlocutori a sinistra, e trovò scettica ironia a destra; si perse nel fumo astratto di una lotta al liberalcapitalismo che non aveva compagni di strada né strumenti idonei per così titanica impresa. La sua linea fu sconfitta da Almirante che aveva più grande fascino oratorio e sapeva toccare come pochi le corde della nostalgia. Almirante ti guardava negli occhi con i suoi occhi azzurri; lo sguardo di Rauti si perdeva nei vetri dei suoi occhiali. Nessuno dei due poteva dirsi stratega politico: Rauti guardava troppo lontano, Almirante troppo vicino. L'uno faceva della politica una Visione del Mondo piuttosto nebulosa; l'altro faceva della politica un sublime teatro di piazza e di video, una fiammata che durava l'arco di un comizio. L'Ideologo e l'Artista.
Per galvanizzare i militanti Rauti soleva dire che il peggiore dei nostri è meglio del migliore dei «loro»; frase utile per cementare un ambiente diviso, ma falsa e foriera, nelle menti più deboli, di uno stupido settarismo. La sezione non era il tempio di un ordine cavalleresco.
L'audace svolta a sinistra di Rauti avvenne sull'orlo della scissione di Democrazia nazionale dal Msi. Rauti, invece, restò nel Msi capeggiando una corrente di minoranza e di opposizione interna ad Almirante e poi a Fini. La sua casa madre fu per anni in via degli Scipioni in Roma, un centro politico-librario in cui transitavano militanti e lettori. Poi la breve ma infelice esperienza di segretario del Msi, fin troppo cauto, curiosamente schierato a fianco della Nato nella guerra contro Saddam Hussein, lui che rappresentava la destra filopalestinese e antiamericana (mentre Fini, al seguito di Le Pen, andava a trovare il dittatore irakeno). Negli anni seguenti, gli ex rautiani superarono di gran lunga i rautiani e si disseminarono ovunque. Anche larga parte degli odierni finiani provengono dalla corrente rautiana e antifiniana. Le idee che mossero il mondo fu il suo libro più noto (a cui si aggiunse l'imponente Storia del Fascismo scritta con Rutilio Sermonti). Con la nascita di An, Rauti abbandonò il partito e suo genero, Gianni Alemanno, e tentò la vana impresa di rianimare la fiamma tricolore. Finì male, tra diaspore e microscissioni; più che un partitino avrebbe dovuto forse far nascere una Fondazione per formare i giovani e garantire la continuità con le radici sul piano storico e culturale. Passò per nostalgico, lui che ai tempi in cui Fini esaltava il Duce, sosteneva di andare oltre il fascismo. Rivoluzionario sul piano delle idee, Rauti era una persona mite e cortese, con una vita tranquilla, sin da quando era redattore de Il Tempo, attaccato alle sue abitudini domestiche (i più intransigenti camerati gli rimproveravano la pennica pomeridiana e il braccino corto, il familismo e il salotto col cancelletto per interdire l'accesso sui divani al cane volpino).
Rauti può dirsi l'Ingrao della destra o forse il Bertinotti. Restò a mezz'aria tra la politica e la cultura, ma fece un pezzo di storia della destra, e non la peggiore. La brutta fine della destra - e di Fini in particolare - esalta per contrasto la figura e la statura di personaggi come Pino Rauti. Al loro cospetto, giganteggia. Non solo le sue lenti erano di spessore. Mancò la fortuna, forse il coraggio, non il valore.
MARCELLO VENEZIANI
I libri. Erano questi a segnare la differenza tra Pino Rauti e il resto delle destre. Nazionali o sociali che fossero. Il suo ritratto, ciò che lo tramanda, sono gli occhiali: veri e propri fondi di bottiglia. Ed era questo lui, uno studioso. Per fare dottrina e prospettiva. Magari anche per sbagliare. Ma nell’immediato. Non nelle visioni. Non in quel cammino dove il tempo trasfigura i destini dei popoli. Ebbe l’utopia propria dei calabresi. Fu soldato ed ebbe accanto una militia fatta di facce mirabili, quella di Paolo Andriani, quella di Giulio Maceratini, quella di Giampiero Rubei, quella di Marcello Perina, quella di Ignazio Diminica, quella di Fabrizio Falvo, quella di Fabio Granata, quella di Flavia Perina, quella di Enzo Cipriano e quella di Umberto Croppi. E poi tanti altri, tutti segnati dalla rivoluzione dei libri. Libri che si stampavano in faccia. Libri che avevano fatto delle rovine di un popolo e di un secolo una biblioteca. Questo fu il rautismo: uno scaffale. Senza di lui non ci sarebbe stata la Nuova Destra, senza di lui non ci sarebbe stato il socialismo tricolore di Beppe Niccolai, senza di lui Gianfranco Fini non avrebbe potuto sperimentare l’eresia perché solo con Rauti la destra poté scoprire di essere a sinistra, andando oltre. Senza fischiare. Piuttosto leggendo i Cantos. Con Manfredi. PIETRANGELO BUTTAFUOCO
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