venerdì 9 novembre 2012
"DIO, PATRIA e FAIMIGLIA"
Il nuovo libro di Marcello Veneziani: Un viaggio tra passione e ragione. di Giulia Torri
Un libro originale e coraggioso, a partire dalla dedica: A chi non è più. A chi non è ancora. Un’ammissione di responsabilità.
Un libro che è un tragitto pieno di scoperte e di paura, affrontato con intelligenza, ironia e tenerezza.
Veneziani vi appare sereno ma inquieto: e, questi, sono i due volti del suo pensiero, di un pensiero sofferto e mai monolitico.
È un viaggio fra passione e ragione per recuperare la virtù perduta del coraggio. Un viaggio continuo, fra giornalismo e filosofia. Come fa Ulisse, quello che Dante descrive come un saggio alla ricerca della conoscenza.
Marcello Veneziani si propone di inquadrare, di far comprendere la società (e la storia) attraverso i suoi rovesciamenti, la disgregazione dei suoi principali fondamenti.
Un tema alla Heidegger! Un tema complesso, un’ardua sfida.
Ma (come diceva Aristotele) occorre pensare da saggi, parlando però come la gente comune. Perché la scommessa è raccontare la complessità, “con tutto il cuore e la mente tesa”.
E Marcello Veneziani vince la scommessa, il suo stile è infatti aperto e colloquiale, a volte da acrobata della parola.
Ci parla di Dio, Patria e Famiglia, cioè “del nostro essere al mondo, dopo il crollo di un muro, due torri e tre princìpi”. Quando “abbiamo perso il cielo sulla nostra testa, la terra sotto i nostri piedi e il sangue dentro il nostro cuore”.
Viviamo in un passaggio d’epoca, caratterizzato dal declino di questi tre temi enormi, una “terna di tirannosauri” (come lui li definisce), quelli che “rappresentano” la psiche collettiva, in cui si mostrano le dinamiche della nostra società. La nostra è invece un’età-perno, attorno a cui è ruotato il mondo, è un giro di boa da cui non si torna indietro.
Il testo si articola su molte argomentazioni e molti riferimenti, filosofici e non. Evita con cura la dittatura della rapidità (che insegue risultati immediati) e non smette mai di cogliere, nel formulare idee, il lato ironico delle cose, perché (come diceva Pascal) nulla in base alla pura ragione è di per sé giusto e tutto muta nel tempo.
I “tre tirannosauri” vengono colti ed immobilizzati, come l’entomologo che infilza il coleottero.
D’altronde, sono il cordone ombelicale con la tradizione. I tre “tirannosauri” sono nati e sono vissuti tanto a lungo -così interpreto il suo pensiero – perché l’uomo non poteva vivere neppure un istante senza la presenza (o l’invenzione) consolatoria di un senso, senza una cometa che gli indicasse un percorso, senza qualcosa in grado di organizzargli l’affollarsi altrimenti disordinato dei pensieri. Perché l’anima è fragile, è smarrita come l’animula dell’Adriano della Yourcenar.
Ma Veneziani lo fa (lo si comprende a fondo solo nell’ultima parte del libro, “e, ora, per ricominciare”) in una prospettiva di speranza (ammettendo anche che “la vita riserva sorprese), la speranza appunto che le operazioni di “smontaggio” possano portare emancipazione e verità.
Infatti, come Derrida, Marcello Veneziani è attento alla necessità di smontare (decostruire), di non fermarsi alle apparenze, per poi procedere.
E su Dio, Patria e Famiglia si pone la domanda: “E se fosse necessario ripensarli e riviverli nel nostro presente e nel futuro? Se nascesse dalla loro scomparsa l’odierna disperazione, il cinismo e gli abusi, le paure e le chiusure? Se fosse quell’orizzonte a renderci veramente umani e a legarci in profondità tra noi?”
Il primo tema è Dio (trattato nella parte dal titolo Al posto di Dio), visto come il più stupefacente riferimento (invenzione creativa?) della nostra specie. Il concetto stesso del divino, anzi del sacro, con tutti i suoi misteri che ci spaventano e ci rassicurano e che ci dicono che non dobbiamo avere paura della nostra fragilità. Ed è significativo che la figura centrale del Cristianesimo sia quella di un operaio figlio di operai.
A volte Veneziani sembra ragionare fuori dall’ipotesi di Dio, una saggia norma metodologica, questa, che permette anche ai non credenti di apprezzare ciò che di buono c’è nella religione. Ma conferma, esplicitamente, la posizione di Fuerbach, allorché ci dice che la coscienza che l’uomo ha di Dio altro non è che la coscienza che l’uomo ha di se stesso. Senza Dio, l’uomo perderebbe (ha già perduto?) il suo centro (Hans Sedlmayr).
E, dopo Auschwitz etc. (dopo il terremoto di Lisbona, secondo Voltaire) è facile lamentarsi di Dio e del suo modo di guidare le cose terrene. Già Plotino, nella VI Enneade, diceva che se Dio è sceso in terra, certo non è venuto per starci vicino. Dio oggi: molti tormenti, poca estasi. L’onnipotenza di Dio e la divina impotenza davanti al male.
Veneziani termina con una preghiera dell’assurdo. “Signore dammi la forza di cantare la tua gloria attraverso la tua perdita e di mostrare la necessità della tua presenza tramite la tua assenza”. Ionesco sperava invece di ricevere una chiamata al telefono dal Creatore, o almeno da uno dei suoi angeli di segreteria, per farsi spiegare, per capire…
Potremmo aver sbagliato tutto… e tornano in mente altri ricordi. Ad esempio, Il Sacrificio di Isacco. Kafka ipotizza che Abramo si era semplicemente sbagliato e che Dio non gli aveva chiesto un bel niente. E Derrida, di rincalzo: Dio intima ad Abramo di non parlare non nessuno, di non dire a nessuno della rivelazione, e soprattutto “di non parlarne ai giornalisti e nemmeno al suo psicanalista”.
Nel libro Veneziani afferma che -nella mediocrazia universale d’oggi- “ci mancano le virtuose disperazioni, i tempranti sacrifici e le promettenti carenze su cui si fonda la grande opera”. D’altronde, aggiungo io come esempio, la maggior parte dell’architettura ecclesiastica contemporanea è brutta perché i progettisti hanno perso il senso del sacro.
E continua: “il culto del presente nega il capolavoro, che ha bisogno di sguardi lungimiranti oltre il muro del tempo. Il presente non consegna l’opera alla storia”. Nell’odierno estetismo di massa, l’eccentricità si fa di massa, ognuno si fa artista, la sua opera d’arte è la vita.
Giulio Carlo Argan identificava la causa della morte dell’opera d’arte come estetica nel sistema dell’informazione e nella sua finalità di determinare l’ansia del consumo illimitato. Per Veneziani, nell’odierno estetismo di massa, l’eccentricità si fa di massa, ognuno si fa artista, la sua opera d’arte è la vita: “al posto di Dio, l’artista”.
Nella parte del libro chiamata Al posto della patria, Veneziani appare intento ad osservare la realtà come è oggi. Non dimenticando che in un Paese come il nostro, dove il popolo non è quasi mai realmente esistito e dove l’idea di nazione è stata sempre fragile e precaria (può esistere una nazione senza un popolo? Può esistere un popolo senza una nazione?) la disgregazione in una serie di frammenti è evidente.
Certo, bisogna fare i conti con la comparsa del mondo globale, con più uniformità e meno comunità, più conformità e meno comunanza.
Il pensiero sembra aver smesso di cimentarsi con la propria epoca, ha ripiegato in territori mentali e analitici. D’altronde, viviamo in un passaggio d’epoca, dalla civiltà basata sulla parola scritta a una di suoni e immagini e “le identità dei popoli sono considerate oscene, nell’epoca dei non-luoghi e dei non-tempi”.
Come ha osservato Susan Cain, altrove (in Asia, ad esempio) le persone si considerano parte di un sistema più grande: e subordinano i propri interessi a quelli del gruppo. La nostra cultura ruota invece intorno all’individuo e dobbiamo chiederci se il concetto stesso di patria è per noi realmente vigente e avvertito oppure no.
Si può -Veneziani si chiede e ci chiede- “davvero pensare a una crescita umana e civile se non crescono le relazioni affettive, culturali, ideali e naturali ma solo quelle tecnologiche, commerciali e finanziarie?” Certo, bisogna fare i conti con la comparsa del mondo globale, con più uniformità e meno comunità, più conformità e meno comunanza. Il pensiero sembra aver smesso di cimentarsi con la propria epoca, ha ripiegato in territori mentali e analitici. D’altronde, viviamo in un passaggio d’epoca, dalla civiltà basata sulla parola scritta a una di suoni e immagini e “le identità dei popoli sono considerate oscene, nell’epoca dei non-luoghi e dei non-tempi”. Il primato delle interpretazioni sull’oggettività (un tema filosofico di base) non ha avuto gli esiti emancipativi immaginati: e il mondo è diventato invece un reality guidato dal populismo mediatico.
Diceva Montaigne: “tutto si muove, tutto cambia, si muovono perfino le Piramidi d’Egitto, anch’io mi muovo e cambio ogni attimo. Non posso che raccontare passaggi”. A ogni generazione -afferma Veneziani- tocca generare la sua patria. Viviamo, proprio sul concetto di patria, una transizione fra epoche, in un momento decisivo (e decidere significa letteralmente tagliare via, mettere da parte).
“La patria è la mia casa, la mia lingua, il mio paesaggio, il luogo delle origini, la terra dei padri e delle madri e di tutto ciò che è nostrano, a cominciare dalle persone.
Patria fatta di aria, cibo, facce, parole, silenzi. E in lontananza case, piazze, giorni, amori”, così Veneziani la descrive.
La patria è il luogo dove sta la famiglia, a cui è dedicata la parte del libro intitolata appunto Al posto della famiglia.
Qui l’autore, nonostante la forma più scivolata e discorsiva, mi sembra più legato al sistema nervoso del ricordo e meno lieve. Non lo cita, ma mi ha ricordato a tratti il Salvatore Satta de “Il Giorno del Giudizio”, che ritengo una delle più alte meditazioni sul senso della vita e della morte.
Satta racconta “Ero piccolo, a Nuoro, e guardavo fuori col naso schiacciato contro la finestra. Dietro di me c’era tutta la famiglia, nella stanza ravvivata dal camino, ed eravamo felici. Eravamo felici perché non ci conoscevamo: per conoscersi bisogna svolgere la vita fino in fondo”. Un pessimismo cupo, ma anche Veneziani, nel parlare di famiglia, parla molto di morte, affermando però che l’amore famigliare, come l’amore divino e l’amor patrio, devono alla morte la loro forza.
Se Pratolini parlava dell’amore come disperazione e come paura della perdita, Veneziani sostiene che “la sorte di un amore è abbandonare o essere abbandonato”, domandandosi se nella fine dell’amore di Dio, Patria e Famiglia, siamo stati noi ad abbandonare o siamo stati abbandonati, se e venuta a mancare la loro presenza, o abbiamo deciso noi di allontanarci. Pensa alle età della vita come nella tradizione induista: le età sono quattro, nella prima si impara, nella seconda si insegna, nella terza si riflette, nella quarta si mendica preparandosi all’uscita di scena. Sente, come Montaigne, che i nostri sensi ci ingannano e non si può stabilire nulla di certo.
Improvvisamente, Veneziani appare convinto di poco: un uomo perplesso. A volte, un po’ reticente, come le zie di Proust. Essere obiettivi è un’utopia. E la filosofia aiuta poco: come diceva Croce, non risolve problemi, ma è solo un soffrire più alto.
Inizia affermando che l’immagine della famiglia è sempre legata a un’infanzia mitica, nostra, dei figli nostri, del mondo. La famiglia come poligonia variabile, in cui presenze, oggetti e odori si componevano in un affresco. Ed era proprio l’odore la mappa materiale e immateriale di ogni famiglia, ognuna delle quale aveva il proprio, inconfondibile.
E a un certo punto descrive la propria, identificata con molta tenerezza nel ricordo di suo padre e di sua madre che dormono insieme, l’uno (che di notte aspettava gli dei) accanto all’altra (che della notte temeva i demoni), e di lui che li spia tornando tardi a casa: “in quel ritratto dormiente c’è tutta la trascendenza onirica, l’immanenza e l’evanescenza della famiglia”…
Nella parte finale, propositiva, dal titolo “E ora, per ricominciare” appare la ricerca dei controvalori. Perché tutto cambia, niente è più come prima.
Per tre quarti del libro, Veneziani ha messo in fuga i valori che vede o sono “tramontati”, i tre tirannosauri, forse invenzioni consolatorie, che però ci avevano fornito una guida e una speranza.
Ma non ci lascia nella sfiducia, presi da un senso di palude, di immobilità, di impotenza, con un fardello di malinconie civili. Vuole con forza il fiorire di quello che potrebbe apparire impossibile. Cerca dei controvalori, cerca nuove regole. Se abbiamo un po’ tutti ricevuto un’educazione basata su regole comportamentali e persino le tavole di Mosè si fondano su divieti più che su prescrizioni, ipotizza un possibile nuovo decalogo. Che includa “nuovi” valori, come il rispetto della natura, la tutela della libertà, la solidarietà, la carità.
Dieci punti, anzi “dieci spunti per reincantare il mondo e rifondare la vita”.
Il libro si chiude con l’ammissione di come il pensare Dio, Patria e Famiglia oggi -dopo il declino e nonostante il declino- sia stata un’impresa ardua ma necessaria. L’esito è ora nelle mani dei fati e dei fatti.
Veneziani cerca, aspetta, guarda l’orizzonte. Torna ad amare, in altra forma, Dio, Patria e Famiglia, dopo la loro rovina: per aprirsi al mondo, non per barricarsi. Con amore totale per la verità, costi quello che costi.
Perché di un’origine, di una radice e di un destino l’uomo ha bisogno come del pane, dell’acqua e della luce.
FONTE: http://www.totalita.it/articolo.asp?articolo=1975&categoria=1&sezione=7&rubrica=1
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